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Il Labirinto dello Spirito! (by Avv. Alessandro Canali)

 

Il Labirinto   è un paradigma del viaggio iniziatico e spirituale che doveva percorre l’iniziato templare. Nella cultura occidentale il simbolo del Labirinto, tracciato come decorazione o legato a pratiche religiose, è presente già dall’età più arcaica, fin dalle origini stesse della nostra civiltà.

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Prima come linea infinita a spirale, e successivamente nella sua variante di meandro angolato, è presente in tutto il bacino del Mediterraneo e nella Mesopotamia.

 

Esso è anche uno dei simboli maggiormente presenti nelle cattedrali gotiche edificate nel medioevo.chartres

 

Nel senso cristiano sta ad indicare l’iter ed il cammino di Fede che l’uomo deve percorrere per conseguire l’iniziazione spirituale. Il Labirinto gotico simboleggia la Madre Terra, la Dea Madre, che trova una sua frequente rappresentazione nella Madonna Nera, simbolo di culto templare. Il labirinto è il luogo sotterraneo dove sono racchiusi i tesori. È il crogiolo alchemico dove la materia prima è posta a macerare.maria costantinopoli

 

In questa accezione, il Labirinto può essere considerato simbolo del Graal, come luogo di trasformazione della Materia in Spirito. Forti sono quindi i richiami alchemici del labirinto come luogo di trasformazione della materia, di culto della pietra filosofale.

 

Ricordiamo la regola templare rinvenuta negli scrigni di Volterra per cui solo in alcuni luoghi segreti, labirinti appunto, era data facoltà di praticare l’alchimia. Senza dubbio quindi il Labirinto è un simbolo legato al culto templare. Di questo ha tutte le caratteristiche: è un simbolo di origine pagana, ha una semantica cristiana, è legato ad un culto ancestrale ed ha significato alchemico. Non stupisce che una delle opere più legate al culto della pietra filosofale sia intitolata al Labirinto.cofanetto di volterra

 

Nel “Labirinto del mondo e paradiso del cuore” (1631) di Jan Amos Komenesky, difatti leggiamo:

 

Quella cosa che muta i metalli in oro possiede altre virtù straordinarie: come, ad esempio, conservare la salute umana integra sino alla morte e di non lasciar passare la morte (se non dopo due o trecento anni). Anzi, chi la sapesse usare potrebbe rendersi immortale. Questo lapis non è certamente nient’altro che seme di vita, gheriglio e quintessenza dell’intero universo, da cui gli animali, le piante, i metalli e gli stessi elementi traggono sostanza” (XII).

 

Abbiamo visto, quindi, come il Labirinto possa anche essere considerato come simbolo del mondo sotterraneo, e per questo nelle cattedrali gotiche francesi trova spazio laddove vi è il culto della Madonna Nera. Ma per comprendere esattamente di cosa si tratta ritorniamo a Chartres, ed evidenti appariranno le similitudini con gli edifici religiosi di Alatri. Nella cripta della cattedrale francese si trova una galleria ipogea, posta sotto la navata di sinistra che parte dalla torre nord. A termine di questa galleria vi è un madonna di legno, copia di una statua distrutta durante la rivoluzione, che rappresentava Notre Dame de Chartres, raffigurata anche in pietra sul portale centrale, ovvero la divinità venerata nella cattedrale. Accanto a questa statua si trova un pozzo di origine celtica legato probabilmente ad un precedente culto druidico. Che la Cattedrale sia costruita su preesistenti edifici e templi romani non è un mistero, ma un dato archeologicamente provato.madonna_nera_chartres_eure_et_loire_francia_05 Un mistero invece è la leggenda diffusasi nel medioevo per cui il culto della Madonna di Chartres fosse originato da un precedente culto Druidico di una Vergine Partitura, la Dea Madre, venerata in una grotta. Nel 1609 un avvocato di Metz, Sebastienne Ruillard, compose un opera fantastica chiamata Parthenie in cui veniva esplicato dettagliatamente il culto precristiano della vergine partitura di Chartres. Nel frontespizio dell’opera si vede la vergine in una grotta raffigurata con il figlioletto sulle ginocchia, accostata al pozzo druidico. imagesJXE32S53Peccato che all’epoca il pozzo di Chartres non era stato ancora scoperto! Prova che i culti esoterici sono proseguiti sotterranemanete per oltre duemila anni…….  E parlando di una Vergine con il bambino in una grotta non possiamo non pensare ad un opera famosissima, : la Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci. vergine rocceSull’appartenenza di Leonardo a scuole di pensiero esoteriche si è già scritto tanto. Basterà qui osservare che l’opera in realtà riproduce un paesaggio ipogeo, e non montano, per sostenere a buon diritto che Leonardo ha voluto con essa fare una raffigurazione iconografica del culto ipogeo della Dea Madre. E non a caso in tutta la Ciociaria risulta molto diffuso il culto delle madonne nere, come quelle di Canneto o di S. Apollinare, ed anche la Madonna di Costantinopoli di Alatri, nonche’ la pratica di culti ipogei come quello dell’Arca dell’Alleanza nella cripta di S.Magno ad Anagni o quello della Santissima Trinita’ di Vallepietra. Nella grotta di Vallepietra vi e’ la piu’ antica raffigurazione iconografica mai rinvenuta della Trinita’, culto evidentemente  legato alla ciclicita’ delle stagioni e alla fertilita’ dei raccolti, come quello della Dea Madre, ed i pellegrinaggi che ogni anno vi portano migliai di fedeli, ne fanno probabilmente il piu’ antico culto ipogeo ancora praticato!……. 

 

La stessa abbazia di S. Maria Maggiore ad Alatri risulta edificata sulle rovine di un tempio attribuito a Venere, che è una delle divinità romane in cui era stata trasfigurata la Dea Madre, come generatrice del  mondo. 

 

Ancora piu’ evidente appare ora il cordone che lega Chartres ad Alatri, che passando per la specularita’ dei rispettivi labirinti,  ci lascia una evidente traccia di una filosofia spirituale ben radicata in tutta l’Europa medioevale e successivamente occultata tra le ingannevoli maglie della storia

 

 

Avv. Alessandro Canali

 

I Siculi nel latium adiectum…….(di Massimiliano Mancini)

 Colonis saepe mutatis tenuere alii aliis temporibus, Aborigines, Pelasgi, Arcades, Siculi

Plinio, Naturalis Historia 3,5.

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1. I SICULI

Il nome dei Siculi è associato al termine Σικελόι [Sikelòi], con il quale venivano chiamati dai Greci, cosi come asserisce Tucidide (VI, 2, 1-2), presentando le popolazioni barbare che abitavano la Sicilia preellenica, e ciò viene confermato anche dalla storiografia greca di età romana, Diodoro, Pausania, Strabone, Dionigi di Alicarnasso e sopravvive anche nella letteratura storica latina (Musti 2008).   Il nome di questo popolo, secondo Antioco di Siracusa, sostenuto da Dionigi di Alicarnasso, deriverebbe dall’eponimo re Σικελός [Sikelòs], mentre un altro re siculo di nome Italo, secondo Tucidide, avrebbe addirittura denominato l’intera penisola italiana con il proprio nome.   Σικελοὶ δ’ ἐξ Ἰταλίας ̔ἐνταῦθα γὰρ ᾤκουν̓ διέβησαν ἐς Σικελίαν, φεύγοντες Ὀπικούς, ὡς μὲν εἰκὸς καὶ λέγεται, ἐπὶ σχεδιῶν, τηρήσαντες τὸν πορθμὸν κατιόντος τοῦ ἀνέμου, τάχα ἂν δὲ καὶ ἄλλως πως ἐσπλεύσαντες. εἰσὶ δὲ καὶ νῦν ἔτι ἐν τῇ Ἰταλίᾳ Σικελοί, καὶ ἡ χώρα ἀπὸ Ἰταλοῦ βασιλέως τινὸς Σικελῶν, τοὔνομα τοῦτο ἔχοντος, οὕτως Ἰταλία ἐπωνομάσθη. Tucidide (Περ το Πελοποννησίου πoλέμου [La guerra del Peloponnesso] VI, 2, 4) [I Siculi dall’Italia (ivi infatti abitavano) passarono nella Sicilia, fuggendo gli Opici, su zattere, secondo la leggenda e la verosimiglianza, dopo aver aspettato di passare allo spirare di un vento favorevole o forse sbarcando in qualche altro modo. Nell’Italia vi sono ancora dei Siculi e il paese fu chiamato Italia da Italo, un re dei Siculi che aveva questo nome]. (Traduzione: Musti 2008)   La loro presenza sull’isola, ancora oggi chiamata Sicilia, ne avrebbe fatto conseguire il nome, come sostiene espressamene Diodoro Siculo (V, 2), il quale asserisce che dall’iniziale nome di Trinacria, dovuto alla forma triangolare, l’isola fu chiamata successivamente Sicania dal nome del popolo dei Sicani e infine avrebbe tratto il nome definitivo dai Siculi.   [5,2] Καὶ ταύτην τὴν βίβλον ἐπιγράφοντες νησιωτικὴν ἀκολούθως τῇ γραφῇ περὶ πρώτης τῆς Σικελίας ἐροῦμεν, ἐπεὶ καὶ κρατίστη τῶν νήσων ἐστὶ καὶ τῇ παλαιότητι τῶν μυθολογουμένων πεπρώτευκεν. Ἡ γὰρ νῆσος τὸ παλαιὸν ἀπὸ μὲν τοῦ σχήματος Τρινακρία κληθεῖσα, ἀπὸ δὲ τῶν κατοικησάντων αὐτὴν Σικανῶν Σικανία προσαγορευθεῖσα, τὸ τελευταῖον ἀπὸ Σικελῶν τῶν ἐκ τῆς Ἰταλίας πανδημεὶ περαιωθέντων ὠνόμοσται Σικελία. Diodoro Siculo (Βιβλιοθήκη στορική [Biblioteca storica] V, 2) [Avendo io pertanto intitolato questo libro insulare, primieramente parlerò della Sicilia; perciocché essa è la più eccellente tra le isole, e tiene facilmente il primate per l’antichità delle cose degne d’essere rammentate. Anticamente chiamossi Trinacria per la sua figura triangolare. Di poi fu detta Sicania dai Sicani, che la coltivarono: indi Sicilia dai Siculi, I quali in essa passarono dalla Italia in gran numero]. (Traduzione: Compagnoni 1820)     Si deve ritenere che i Siculi, come le altre popolazioni preelleniche insediatesi in momenti diversi in Sicilia, dopo essere entrati in contatto con i coloni greci, che dall’VIII secolo a.C. avevano iniziato a colonizzare l’isola, si siano mischiati e integrati progressivamente ad essi.   Quindi si può ritenere che i Siculi apprendendo e integrando progressivamente la cultura dei Greci, iniziarono un processo di acculturazione e grecizzazione che li portò a fondersi gli uni con gli altri, sino al punto che tutti gli abitanti dell’isola vennero denominati in seguito Sikeliotai, prescindendo dall’etnia d’origine.   ὕσταται δ´ ἀποικίαι τῶν Ἑλλήνων ἐγένοντο κατὰ τὴν Σικελίαν ἀξιόλογοι καὶ πόλεις παρὰ θάλατταν ἐκτίσθησαν. ἀναμιγνύμενοι δ´ ἀλλήλοις καὶ διὰ τὸ πλῆθος τῶν καταπλεόντων Ἑλλήνων τήν τε διάλεκτον αὐτῶν ἔμαθον καὶ ταῖς ἀγωγαῖς συντραφέντες τὸ τελευταῖον τὴν βάρβαρον διάλεκτον ἅμα καὶ τὴν προσηγορίαν ἠλλάξαντο, Σικελιῶται προσαγορευθέντες. Diodoro Siculo (Βιβλιοθήκη στορική [Biblioteca storica] V, 6, 5) [Ultimi, ma degni di fama, sono gli insediamenti e le poleis che dai Greci vennero fondati sulle coste; (gli indigeni) mischiandosi con essi, a causa del gran numero di Greci sbarcati sull’isola, appresero la loro lingua e, venendo educati secondo il modello greco, abbandonarono il loro dialetto barbaro ed il loro nome, venendo chiamati tutti Sicelioti]. (Traduzione: Chiai 2002)

2. L’ORIGINE DEI SICULI

L’origine di questo popolo è molto dibattuta con opinioni differenziate sia nella storiografia antica sia in quella contemporanea.   Secondo Dionigi di Alicarnasso (I, 9, 1) i Siculi erano autoctoni e quindi non indoeuropei, elemento sostenuto anche da storici moderni (Miceli 1836) che li inseriscono tra le antiche popolazioni italiche aborigene, accanto ai Veneti o Venetici, Liguri, Sardi o Nuraghi e altri. Lo stesso Dionigi sostiene che questo popolo avesse in qualche modo un’origine laziale, ricordando come molte località ai suoi tempi avessero ancora denominazioni sicule, in ricordo dei loro primi abitanti. τὴν ἡγεµόνα γῆς καὶ θαλάσσης ἁπάσης πόλιν, ἣν νῦν κατοικοῦσι Ῥωµαῖοι, παλαιότατοι τῶν µνηµονευοµένων λέγονται κατασχεῖν βάρβαροι Σικελοί, ἔθνος αὐθιγενές: τὰ δὲ πρὸ τούτων οὔθ᾽ ὡς κατείχετο πρὸς ἑτέρων οὔθ᾽ ὡς ἔρηµος ἦν οὐδεὶς ἔχει βεβαίως εἰπεῖν. χρόνῳ δὲ ὕστερον Ἀβοριγῖνες αὐτὴν παραλαµβάνουσι πολέµῳ µακρῷ τοὺς ἔχοντας ἀφελόµενοι: Dionigi di Alicarnasso (Ρωμαικη αρχαιολογία [Antichità romane] 1, 9, 1). [Si dice che i più antichi abitatori della città, che ora è abitata dai Romani e che domina la terra e il mare, siano i Siculi, e cioé una popolazione barbara e autoctona. Nessuno invece è in grado di affermare con certezza se prima di costoro quest città fosse occupata da altri o fosse disabitata.Il popolo degli Aborigeni ne prese possesso dopo lunga guerra, dopo averla strappata ai precedenti possessori.] (Traduzione Cantarelli 1994). Anche Varrone (V, 101), vissuto nel primo secolo a.C., evidenziando le similitudini tra la lingua sicula e quella latina confermerebbe indirettamente l’origine laziale dei Siculi. Lepus quod Siculi quidam Graeci dicunt λέποριν. A Roma quod orti Siculi, ut annales veteres nostri dicunt, fortasse hinc illuc tulerunt et hic reliquerunt id nomen. Volpes, ut Aelius dicebat, quod volat pedibus. Marco Terenzio Varrone (De lingua latina, V, 101)   Filisto di Siracusa, storiografo magno greco del IV secolo a.C., nella sua Storia della Sicilia (Sikelikà), attribuisce origini liguri a questo popolo, che quindi proveniva dal nord prima del suo insediamento finale nell’isola (Sergi 1934).

3.LA PRESENZA DEI SICULI NEL LATIUM

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I Siculi sono considerati tra i più antichi abitatori del Lazio, da Plinio (III,56), Virgilio (Eneide 7,95), Dionigi D’Alicarnasso, territorio dal quale furono successivamente scacciati da altre popolazioni indigene, per raggiungere la Trinacria attorno al secolo XV a.C., che da loro e dal popolo dei Sicani prese il nome di Sicilia (Martelli 1830).   Si è già detto della testimonianza di Dionigi di Alicarnasso sul fatto che ancora al suo tempo (60 a.C. circa – 7 a.C.) molte località avessero ancora denominazioni che ne ricordavano la fondazione da parte dei Siculi (Ρωμαικη αρχαιολογία [Antichità romane] 1, 9, 1). Colonis saepe mutatis tenuere alii aliis temporibus, Aborigines, Pelasgi, Arcades, Siculi, Aurunci, Rutuli et ultra Cerceios Volsci, Osci, Ausones, unde nomen Lati processit ad Lirim amnem. Plinio (Naturalis Historia 3, 56). [I suoi abitanti (del Latium n.d.r.) mutarono spesso, avvicendandosi nel corso del tempo: Aborigeni, Pelasgi, Arcadi, Siculi, Aurunci, Rutuli; e, oltre il Circeo, Volsci, Osci e Ausoni: estendendosi a questi popoli il nome del Lazio avanzò sino al fiume Liri.] (Traduzione Corso et al. 1988).   Diverse antiche città dei prisci Latini si attribuiscono all’originaria fondazione da parte dei Siculi, come ad esempio la potente Aricia, Gabii, Crustumerio e la stessa Ecetra, capitale dei Volsci dell’entroterra o Volsci Ecetrani (Pinza 1898).   E sempre Dionigi d’Alicarnasso (in Ρωμαικη αρχαιολογία [Antichità romane]) cita un articolato elenco di antiche ed importanti città laziali tra quelle fondate dai Siculi, tra le quali Falerii,  Fescennio (1, 21), Tibur (1, 16),  Cenina, Antennae (2,35).   Persino in una disposizione delle XII Tavole, che riguarda specificatamente la pratica scarnificatrice tipica del popolo siculo, è possibile trovare una conferma della penetrante influenza delle tradizioni sicule sulla prima popolazione di Roma, che permaneva ancora all’epoca della redazione della prima legge scritta romana, nel 450 a.C. (Mancini 2014).   Dell’insediamento di questo popolo nel Latium ed in particolare nel Latium Vetus, ci danno testimonianza le tombe rinvenute a Cantalupo in Sabina e nella vicina Corneto Tarquinia.   Anche la storiografia contemporanea concorda sulla presenza dei Siculi nel Latium, (Barbagallo 1972, Ambrosi De Magistris 1979, Musti 1992).

4.LA TOMBA DI SGURGOLA (FR)IMG_7444

Secondo alcuni, i Siculi utilizzavano un rituale funerario inumatorio deponendo i cadaveri in piccole tombe a forno, nelle quali, secondo un’usanza funeraria che sarebbe caratteristica di questo particolare popolo, le ossa degli estinti erano inumate dopo una preliminare scarnificazione e a volte erano anche tinte con coloranti rossi (Barbagallo 1972, Ambrosi De Magistris 1979, Musti 1992).   In questa ottica si ritiene che la disposizione n.5 della Tabula X della famosa Legge delle dodici tavole fosse riferita a questa usanza scarnificatrice tipica del popolo Siculo, in questo modo si avrebbe una conferma, seppure indiretta, del fatto che dovette essere stata penetrante l’influenza delle tradizioni Sicule sulla prima popolazione di Roma e che essa dovette permanere ancora all’epoca della redazione della prima legge scritta romana nel 450 a.C.

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… Homine mortuo ne ossa legito, quo post funus faciat …..

Lex duodecim tabularum leges, (X, 5).   [Di un uomo morto non si raccolgano le ossa per farne dopo i funerali ….] in sostanza le esequie dovevano aver fine colla cremazione del cadavere e la immediata sepoltura delle ceneri (ndr).     Nel 1879 fu trovata una tomba preistorica presso la località Casale Ambrosi, nella valle del Sacco, presso la stazione ferroviaria di Sgurgola, attualmente comune in provincia di Frosinone.   La sepoltura a scheletro rannicchiato attribuita alla facies di Rinaldone, scavata in una piccola grotta di travertino con un ricco corredo integro costituito da numerose punte di freccia, un’ascia a martello, un pugnale di rame tipo Guardistallo e un vasetto a fiasca (Pinza 1905).   Lo scheletro rinvenuto all’interno della tomba risultava di sesso maschile e le misure delle ossa lunghe davano una statura approssimativa di m. 1,62, rivelando anche una certa robustezza della struttura fisica dell’individuo. (Pigorini 1880)   Sotto il profilo morfologico questo scheletro si accosta alla media delle disposizioni morfologiche presentate dalle popolazioni eneolitiche della Sicilia (Giuffrida-Ruggeri 1906).   Il prof. Luigi Pigorini, fondatore dell’omonimo museo in Roma e grande paletnologo, nel 1880 scriveva di aver acquistato il materiale rinvenuto in quella tomba e di aver notato una colorazione rosso vivo nella parte anteriore del cranio umano e in alcune punte di selce, parte del corredo tombale (Pigorini 1880).   Questi reperti sono oggi esposti presso il museo Etnografico Pigorini.   Le analisi commissionate dal prof.Pigorini al dott.Ruggero Panebianco, assistente al gabinetto mineralogico della Regia Università di Roma, evidenziarono che la tintura di tutti i reperti era della stessa natura e composizione, e precisamente il colorante è stato riconosciuto come cinabro applicato in tempi remoti (Pigorini 1880), un minerale, appartenente alla classe dei solfuri, noto già ai Greci, costituito chimicamente dall’unione di zolfo e mercurio.   Si rilevò che la tintura non fosse accidentale, sia in ragione dell’uniformità della tintura che della sovrapposizione di strati di calcite, bensì applicata intenzionalmente da chi compose la reliquia nel sepolcro, eseguendo di conseguenza una preliminare scarnificazione del defunto.   È quindi ragionevole ritenere che questa manifestazione costituisse un rituale funebre proprio di questo popolo, comportamento che all’epoca della scoperta della tomba appariva del tutto nuovo (Pigorini 1880).   Peraltro il cinabro è un minerale non presente nell’area della valle del Sacco.   Per la sua capacità di trasformarsi in mercurio, il cinabro è tra i più studiati materiali dagli alchimisti ed esoterici di varie epoche ed ambienti e anche in tempi moderni Julius Evola utilizza il nome di questo minerale per il titolo del suo testo “Il cammino del cinabro” (Evola 2014) che dietro un’apparente narrazione autobiografica rivela un contenuto esoterico e alchemico.

IMMAGINI curate da M.Mancini:

La tomba eneolitica di Sgurgola (FR) nella sua teca presso il Museo etnopgrafico Luigi Pigorini di Roma.

Particolare del cranio con la caratteristica colorazione rossa delle ossa facciali.

Particolari del corredo funerario, come si può rilevare anche le punte di freccia presentano la medesima colorazione rituale rossa applicata sul cranio.             

6.BIBLIOGRAFIA

Ambrosi De Magistris 1889: R. Ambrosi De Magistris, Storia di Anagni, Roma 1889.   Barbagallo 1975: I. Barbagallo, Frosinone, lineamenti storici dalle origini ai giorni nostri, Frosinone 1975.   Cantarelli 1984: Storia di Roma arcaica (le antichita romane) di Dionisio di Alicarnasso; a cura di F.Cantarelli, Milano 1984.   Chiai 2002: G.F. CHIAI, Il nome della Sardegna e della Sicilia sullo rette dei Fenici e dei Greci in età arcaica. Analisi di una tradizione storico-letteraria, in Rivista di Studi Fenici XXX, 2, CNR, Roma, 2002.   Compagnoni 1820: Biblioteca storica di Diodoro Siculo, volgarizzata dal cav.Compagnoni, Sonzogno, Milano 1820.   Corso et al. 1988: Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, traduzione e note di A.Corso, R.Mugellesi, G.Rosati, Torino 1988.   Evola 2014: Julius Evola, Il cammino del Cinabro, Edizioni Mediterranee, Roma 2014.   Giuffrida-Ruggeri 1906: V. Giuffrida-Riggeri, Elenco del materiale scheletrico preistorico e protostorico del Lazio, Società romana di antropologia, Roma 1906.   Mancini 2014: M. Mancini, I Volsci e il loro territorio, Mancini Editore, Frosinone 2013, seconda edizione 2014.   Martelli 1830: F. Martelli, Le antichità de Sicoli, primi e vetustissimi abitatori del Lazio e della provincia dell’Aquila, Aquila 1830.   Micali 1836: G. Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Milano 1836.   Musti 2008: Erodoto e Tucidide, Storie – La guerra del Peloponneso, saggio introduttivo di D.Musti, a cura di C.Moreschini, F.Ferrari, G.Daverio Rocchi, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2008.   Musti 1992: D. Musti, L’immagine dei Volsci nella storiografia antica, in I Volsci. Undicesimo incontro di studio del Comitato per l’archeologia laziale [= Archeologia laziale, XI,1], Roma 1992 (Quaderni di archeologia etrusco-italica, 20), pp. 25-31.   Pigorini 1880: L. Pigorini, Avanzi umani e manufatti litici coloriti dell’età della pietra, in «Bullettino di paletnologia italiana», 6, 1880, n. 3 e 4, pp. 33-39.   Pinza 1898: G. Pinza, Le civiltà primitive del Lazio, Roma 1898.   Pinza 1905: G. Pinza, Monumenti primitivi di Roma e del Lazio antico, Roma 1905.   Sergi 1934: G. Sergi, Piccola Biblioteca di Scienze Moderne, “Da Albalonga a Roma. Inizio dell’incivilimento in Italia, ovvero Liguri e Siculi”, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1934.       APPROFONDIMENTI MULTIMEDIALI     I Siculi nel Latium Adiectum di M.Mancini. https://www.youtube.com/watch?v=l-n57NTTqTs

…quello che dovremmo sapere sui Volsci.. (di Massimiliano Mancini)

 I VOLSCI COME ENTITA’ POLITICA E CULTURALE

Analizzando la storia dei Volsci emergono alcuni dubbi di ordine sociologico, ossia se si debba intenderli unitariamente come un popolo, oppure più genericamente come un’organizzazione non strutturata, sotto il profilo politico e sociale, e dunque come un raggruppamento frammentario e disorganizzato di piccoli gruppi sociali o tribù. 10341429_10203644081653446_1047210424800710992_n

E sull’inquadramento di questo popolo ci sono opinioni molto divergenti, ad esempio c’è chi li descrive “un’orda predatoria, valorosissima ma disordinata” (Quilici, Quilici Gigli 1997), capaci di abbandonare in breve tempo, i costumi montanari in favore della navigazione e di un’agricoltura efficiente.

Altri invece gli attribuiscono una struttura sociale stabile e strutturata e un’evoluzione politica capace di tessere rapporti con il mondo circostante e di instaurare reti di amicizie politiche ed economiche su più fronti (Musti 1992).

Il problema non è terminologico bensì sostanziale, poiché la conoscenza della loro struttura sociale e politica consente d’interpretarne la storia nella globalità e tutte le loro vicende in senso specifico.

ELEMENTI CARATTERIZZANTI UN POPOLO

Il concetto di popolo e nazione richiede innanzitutto una definizione e un approfondimento di natura sociologica, ma in quest’analisi la storia dei Volsci sarà valutata solamente riguardo al loro profilo politico e culturale.

Il concetto di popolo, riferito, non solo nei tempi moderni, ma anche a periodi antichi, tra tutte le altre caratteristiche deve implicare la coscienza e una stretta comunanza politica e sociale tra tutti i membri.Carte_GuerresRomanoVolsques_389avJC

La comunanza politica si concretizza nella condivisione di un’organizzazione e di una struttura politica unitaria. Questo elemento è presente già nelle società tribali primitive, mentre l’idea di stato unitario, con forti implicazioni territoriali e istituzionali, sociali e culturali, rappresenta una tappa avanzata del cammino evolutivo del genere umano.

La comunanza politica può sussistere anche con la condivisione di legami di tipo federale, e in generale dalla condivisione di una coscienza politica unitaria.

Pertanto si può parlare di popolo etrusco e di comunanza politica tra tutte le città stato dell’Etruria, nonostante la presenza di diverse leghe etrusche, per la coscienza di unitarietà e di un legame etnico e politico presente in quegli uomini che si definivano unitariamente Rasenni (Mommsen 1991).

La comunanza politica, intesa dunque come coscienza di unitarietà di un popolo, può raggiungere livelli di coscienza in cui essa è sentita con tale profondità dai membri di un gruppo per cui si può parlare di popolo anche quando ne manchi il territorio.

Il popolo ebreo, ad esempio, nonostante la dominazione babilonese prima e la sottomissione romana dopo il 70 d.C., che diede inizio alla diaspora, pur rimanendo per quasi 1.900 anni senza territorio, i suoi membri tuttavia hanno mantenuto immutato il loro legame con un territorio per lunghi secoli rimasto astratto, così come la loro coscienza di popolo unico è rimasta immutata, nonostante fossero dispersi in tutto il mondo.

Il concetto di comunità implica quindi un comune patrimonio simbolico fatto di lingua, legami culturali, sociali e comunanza etnica dei membri del gruppo, tradizioni storiche, mitologiche e religiose comuni, specifiche forme di produzione artistica e artigianale.

LE ISTITUZIONI POLITICHE DEI VOLSCI

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Sotto il profilo politico-istituzionale, i Volsci, nella loro storia, si mantennero sostanzialmente legati alla struttura della città stato, raggiungendo forme di aggregazione federale riunite intorno alla città guida, che la storiografia indica come capitali individuandole nelle città di Anzio e di Ecetra.

La stessa tradizione storiografica opera, sin dalle prime narrazioni delle vicende dei Volsci, una netta distinzione tra i due principali gruppi socio-politici: i Volsci Ecetrani e i Volsci Anziati.

Questo evidenzia una struttura culturale e politica abbastanza differenziata, contemporaneamente, implica la presenza di forti elementi di comunanza culturale e di una coscienza di appartenenza a uno stesso popolo.

Sotto il profilo politico, la separazione tra i due gruppi di Volsci è dimostrata anche dal fatto che nei documenti storici, quando si narrano le battaglie, in alcuni casi ci si riferisce genericamente ai Volsci, spesso si cita specificatamente la guerra combattuta dai Volsci Anziati oppure dai Volsci Ecetrani, oppure il ruolo di Anzio ed Ecetra, le capitali dei due gruppi politici volsci, dei due eserciti.

Ad esempio, per citare qualche passo dalla tradizione storiografica:

… Ecetranorum Volscorum legati,…

Tito Livio (Ab Urbe condita libri 2,25).

[…gli ambasciatori dei Volsci di Ecetra,…]

Ita fusi Volsci Antiates, …

Tito Livio (Ab Urbe condita libri 2, 33).

[Così furono sbaragliati i Volsci Anziati…]

Sedictio tum inter Antiates Latinosque coorta, 

Tito Livio (Ab Urbe Condita Libri 6,33)

[Allora tra Anziati e Latini sorse una contesa,]

Eodem anno descisse Antiates apud plerosque auctores invenio;

Tito Livio (Ab Urbe Condita Libri 3,23)

[Presso la maggior parte degli autori ho trovato che in quello stesso anno ci fu una rivolta degli Anziati;]

Antiates in agrum Ostiensem Ardeatem Solonium incursiones fecerunt.

Tito Livio (Ab Urbe Condita Libri 8,12)

[Gli Anziati effettuarono incursioni nei territori di Ostia, Ardea e Solonio.]

 

(2) Tres tribuni postquam nullo loco castra Volscorum esse, nec commissuros se proelio apparuit, tripartito ad devastandos fines discesserunt. (3) Valerius Antium petit, Cornelius Ecetras;  quacumque incessere, late populati sunt tecta agrosque, ut distinerent Volscos;

Tito Livio (Ab Urbe Condita Libri 4,59, 2-3)

[(2)I tre tribuni, vedendo che i Volsci non avevano posto il campo in alcun luogo, e che non sarebbero venuti a battaglia, divisi in tre colonne andarono a devastare il territorio nemico. (3) Valerio si diresse ad Anzio, Cornelio verso Ecetra: dovunque passarono misero a sacco per largo tratto le case e i campi, per tenere divise le forze dei Volsci.] (Traduzione Perelli 1979).

IL PATRIMONIO LINGUISTICO E CULTURALE VOLSCO

Anche l’evoluzione culturale dei due gruppi fu differente a causa dei diversi scambi e influenze culturali che interessarono la loro storia, ma non per questo snaturato rispetto l’etnia di origine.

I Volsci Anziati, stabiliti nel territorio costiero, erano più aperti agli incontri con tutte le popolazioni dei grandi popoli navigatori, come i Cartaginesi e i Fenici con i quali riuscirono ad avere frequenti scambi commerciali.

Viceversa i Volsci Ecetrani, situati nell’entroterra, nel territorio dell’odierna Ciociaria, dovettero rimanere più chiusi ma più legati alle tradizioni della propria etnia, la civiltà safina, grazie ai legami con i confinanti popoli dei Marsi, dei Sabini e, in seguito, dei Sanniti.

Possiamo concludere quindi che nel popolo dei Volsci si possa intravedere una coscienza di popolo, sebbene con una differenziazione politica e culturale nei due gruppi dei Volsci Anziati e dei Volsci Ecetrani.

Questo fenomeno non è inusitato nei popoli antichi, lo rileviamo, ad esempio, anche nella civiltà dei Sanniti, altro popolo safino, anch’essi suddivisi in vari gruppi, tra i quali i Sanniti Pentri, abitanti le zone dell’entroterra del Sannio e legati alla guida della capitale Bovianum, i Sanniti Carecini, Caudini e Irpini (Salmon 1985).

Alla luce di queste premesse, i Volsci possono essere considerati un popolo unico, nel senso di una Κοινη (Koinè), termine greco che individua una comunanza linguistica e culturale, anche con valenza sociale e politica (Mancini 2014).

 

I rosoni di Alatri, i loro simboli, il passaggio spirituale, dalla teoria, alla pietra.. (di Alessandro Canali)

Il percorso iniziatico verso la Verita’ interiore.

18 Alatri - Croce patente nella chiesa S Francesco

La reductio ad unum templare di Alatri.

I due trafori centrali dei rosoni delle chiese di S. Maria Maggiore e di S. Francesco ad Alatri raffigurano lo stesso percorso iniziatico, marcatamente templare, costituendo una rappresentazione simbolica unica in Europa.

Non casuale, ed ascrivibile alla stessa regia, il ritrovamento, anch’esso unico in Europa, del cd. “Cristo del Labirinto”, che raffigura il percorso di iniziazione gnostica guidata dal Cristo Soter postone al centro, come di alcune raffigurazioni di croci templari.Cristo-nel-labirinto-di-Alatri-dopo-il-restauro-Foto-Comune-di-Alatri_jpg

La chiave di lettura del messaggio simbolico contenuto nel traforo è duplice: dall’esterno verso l’interno e dall’interno verso l’esterno, in quanto il percorso iniziatico non può essere mai statico ma  necessariamente dinamico.infinitotto

 La forma più alta di Sapienza concessa all’uomo non è  il raggiungimento della Verita’ ma concentrare la propria esistenza terrena nella continua ricerca della stessa.canalirosa

Il messaggio sembra essere proprio questo:

in questa vita ci si dirige e ci si avvicina alla Verità, ma non la si può mai raggiungere

Percorrere il labirinto ed affrontare le sue prove è la forma più alta di esperienza mistica che ci è data nella vita terrena.

E la stessa intessitura del traforo è di per sè un labirinto di pietra e di simboli!

canalicroce

Predominato da una croce templare centrale, sapientemente celata con tecnica criptosimbolica tipicamente templare, il rosone nasconde una pluralità di figure geometriche altamente simboliche che si trasformano e sciolgono le une nelle altre, tra cui una “rosa del graal”.

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Sia dall’esterno verso l’interno che viceversa, vediamo la seguente sequenza simbolica:

cerchio-ottagono-quadrato-ottagono-cerchio,

il pentacolo simbolico che rappresenta le fasi della

discesa-ascesa-discesa

tra la dimensione Spirituale propria della nostra anima e quella Terrena propria della nostra natura.

La sintesi simbolica e geometrica di queste figure è la grande croce inscritta nel cerchio che ne scaturisce

La sequenza rappresenta la continua oscillazione che dall’Infinito celeste (la circonferenza esterna del traforo) porta verso l’Infinito interiore (il cerchio centrale al traforo).

Il centro del rosone è’ la traccia di Sapienza divina presente all’interno di ogni individuo, l’Uno che è in noi, che si riespande verso l’Infinito celeste e verso cui tende l’Infinito celeste

Questa oscillazione spirituale, che avviene attraverso fasi (iniziatiche) ben precise, determina la vibrazione energetica che, se percepita, orienta la nostra esistenza verso l’ Eterno

Il canto gregoriano e le estasi liriche di Ildegarda di Bingen ne sono testimonianza concreta e percepibile.

https://www.youtube.com/watch?v=dM2PqY4crMY

La croce delle beatitudini, la “rosa del graal” e l’ottagono  rimandanosubito   alla presenza templare

L’ottagono, in geometria, si ottiene unendo, con quattro segmenti in diagonale, i vertici dei 4 bracci di una croce greca o incrociando a 45º due quadrati, con lo stesso centro, e unendo i vertici fra loro; oppure tracciando i quattro punti cardinali e i quattro punti loro intermedi (operazioni geometriche ben esplicitate all’interno del rosone), ottenendo una stella a 8 punte e unendone i vertici.

L’ottagono rappresenta il tentativo dell’Uomo (quadrato) di farsi Spirito (Cerchio)

Ed infatti nei rosoni di Alatri lo troviamo sempre rappresentato tra il quadrato ed il cerchio.

E’ lo sforzo di elevazione della Materialita’, in Spiritualita’.  Partendo da una figura semplice (quadrato), lo Spirito si evolve (passando all’ottagono), fino a raggiungere la perfezione rappresentata dalla circonferenza.

E l’8 non è altro che una doppia circonferenza che simboleggia l’infinito.

Questa interpretazione  viene supportata da quanto sostenuto da J.C.Cooper, nel suo mirabile saggio sul simbolismo: “la trasformazione del quadrato in circonferenza avveniva attraverso l’Ottagono”.

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Per questo motivo il Cristianesimo usò l’Ottagono come figura geometrica base per l’edificazione di fonti battesimali.

A Gerusalemme, nel luogo esatto dove sorgeva il Tempio di Salomone, si erge adesso la Moschea della Rocca, che è l’unico esempio di edificio storico islamico costruito su una struttura ottagonale, come del resto era il Tempio stesso.  Cooper ci dice inoltre che, nell’architettura sacra, le cupole poggiano spesso su strutture ottagonali. I quattro punti cardinali e i quattro punti intermedi, unendosi danno un ottagono. L’ottagono rappresenta le otto porte che permettono il passaggio da uno stato all’altro.imagesTNNQ8DLI

Le 8 porte rappresentate nella Croce delle Beatitudini divenuta il simbolo piu’ noto dei Templari ed il centro dei rosoni di Alatri!

Per questo motivo l’ottagono fu la forma geometrica più utilizzata dai Templari, come simbolo della loro missione spirituale sulla Terra

Nell’Ottagono vediamo quindi esaltato il messaggio simbolico templare. Questa figura rappresentava l’elevazione, il tentativo dell’Uomo-Templare che, partendo da una figura semplice (quadrato-il terrestre), si evolveva spiritualmente passando all’ottagono (le otto porte che permettono il passaggio da uno stato all’altro; la transizione; il rinnovamento; la resurrezione), fino a raggiungere la perfezione ultraterrena e l’eternità (rappresentate dalla circonferenza), con il Cristo Soter al centro, come nell’affresco di S. Francesco.

In te ipsum redi!

L’eternità, come notava S.Agostino, riprendendo Seneca e Marco Aurelio, la si trova dentro di noi!

…teorie, e studi sulle origini della nostra terra, ..siate curiosi.. ( di Ilenia Lungo)

LE MURA MEGALITICHE DEL LAZIO:

LA STRAORDINARIA TESTIMONIANZA DI UNA TERRA SCOMPARSA,

DI UN’ANTICA CIVILTÀ E DEL “PRIMATO ITALICO”. . .

 SECONDO GLI STUDI DI ANGELO MAZZOLDI10349071_818126984871623_1982101160205943768_n

 

L’Italia, il paese della cultura, della storia e dell’archeologia è, in molti casi, ricca di testimonianze provenienti da un passato mitico e leggendario che costituiscono un’evidenza storica eccezionale. Ne è un esempio, il territorio del Lazio e delle regioni limitrofe, caratterizzato da imponenti vestigia di circuiti megalitici in opera poligonale, taluni più integri talaltri più esigui, innalzati sulle sommità di colline o rilievi montuosi. Scriveva così, a tal proposito, la studiosa americana Louisa Caroline Tuthill nella sua “History of Architecture del 1848: “In un’età precedente a quella dei Romani, la fiera terra d’Italia era abitata da popoli che hanno lasciato monumenti indistruttibili a testimonianza della loro storia. Quelle meravigliose e precoci città d’Italia, che sono state definite ciclopiche, sono fittamente sparse in molte regioni e spesso appollaiate come nidi d’aquila sulle creste delle montagne, ad una tale altitudine che stupisce e disorienta il viaggiatore che oggi le visita esortandolo a chiedersi cosa abbia spinto gli uomini ad edificare in luoghi tanto inaccessibili e a radicarsi all’interno di tali stupende fortificazioni”.

Continua la lettura di …teorie, e studi sulle origini della nostra terra, ..siate curiosi.. ( di Ilenia Lungo)

la Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano (P.r.)

026Bella ed imponente, posta in un passaggio obbligato nell’unica strada che funge da collegamento tra la zona di sublacum e trevi nel lazio (sublacense), la Villa dell’imperatore iberico Traiano, una struttura che appare ancora oggi dopo millenni, ricca di ogni confort, degna di ospiti illustri.030 Appena accanto alla strada un reticolo di strutture maestose riscoperte nel fine del XVII° sec.dc., sono a testimoniare al viandante come i ricchi romani dell’eta imperiale fossero capaci di allestire dimore reali per garantire il giusto ristoro alla corte dell’imperatore nei periodi in cui egli si dedicava alla caccia. Piscine, terme , giardini, giochi di colori, e acque, un piccolo paradiso (approssimativamente 4 km verso Fiuggi) posto sui 1000 metri di altitudine, intagliato in una stupenda cornice di boschi di castagni e querce, e di monti floridi, pieni di selvaggina.

Ne rimangono in vista, per il visitatore, solo alcune parti restaurate e ripristinate nel loro antico splendore, colonne di marmo di 18 tipi e colori diversi, una fontana con mosaici a pasta vitrea e delfini mossi dallo scorrere dell’acqua, incanalata e distribuita secondo l’antica conoscenza dei popoli latini, con rappresentazioni e affreschi degni dell’antica Pompei.

031Colpisce l’occhio il piccolo museo realizzato in alcune antiche stalle probabilmente poggiate sui basamenti della villa romana, una parte di un affresco rimasto come unico al mondo, secondo la nostra guida d’eccezione (l’Avv. Alessandro Canali), in grado di mostrarci la Vittoria alata imperiale romana nella sua splendida effige gloriosa e più volte copiata nel corso dei secoli, una progenitrice della minerva italica, una bisnonna della figura più utilizzata, finanche dal de la croix durante la rivoluzione francese, per rappresentare la dea del potere di un impero.034

Le colonne ed i capitelli rinvenuti sono di una bellezza che mozza il fiato, intarsiati dai mastri dell’epoca ci fanno pensare che di tale maestria sia rimasta solo la storia ai tempi di oggi.

Nella chiesa del vicino paese di Arcinazzo si rinvengo altre colonne proprio trasportate via dal sito archeologico, così come per altri portali ed epigrafi, oggi facenti parte di architravi e portali cittadini.

Una testimonianza della forza della manodopera romana ai tempi del I° sec. dopo cristo che oggi vale la pena visitare proprio accanto a ristorantini tipici e una splendida natura incontaminata.

https://www.facebook.com/MuseoCivicoDellaVillaDiTraianoAdArcinazzoRomano   038

ALATRI: LA STORIA DI UNA POPOLAZIONE VENUTA DA LONTANO

L’acropoli dalle mura megalitiche …

Chi  ne furono gli artefici? E in quali tempi?

Ripercorriamo un viaggio di antiche popolazioni, affascinati miti e tradizioni e  di chi forse un giorno, lontano dalla sua patria, andò in cerca di nuove terre …

Possibile ricostruzione dell'acropoli di Alatri nella sua totalità
Possibile ricostruzione dell’acropoli di Alatri nella sua totalità
  • In cerca di un posto nella Storia

Siamo nel Lazio, nella Ciociaria Storica, su di un’altura alle pendici dei monti Ernici, cinta da spesse mura poligonali: siamo ad Alatri. Una “vetustissima civitas” (come ci indica la denominazione del suo stemma), fondata, assieme alle città di Anagni, Arpino, Atina e Ferentino, dal Dio Saturno, il cui mito narra che arrivò nell’Italia centrale, profugo dal proprio regno e venne ospitato da Giano regnando insieme ad egli sulle popolazioni indigene e incolte. La presenza di mura poligonali come quelle delle “città saturnie” è nota anche in altre città vicine e meno vicine del Lazio come: Veroli, Cassino, Fondi, Formia, San Felice Circeo, Sezze, Norba, Cori, Segni, ed altre località limitrofe. Le mura di Alatri “si veggono essere nella costruzione simili a quelle di Ferentino, ma più grandiose e più pulite (…) era di già prevenuta, che le mura di Arpino fossero inferiori a queste di cui io ho parlato (…) sebbene la Città di Atina abbia molto figurato nei tempi andati, per cui Virgilio la disse potente, pur non vi abbiamo ora che poche fabbriche romane (…) nella totalità questa cittadella – Alatri – è più grandiosa e meglio conservata, forse perché di ottima specie la pietra calcare del monte, colla quale fu costruita.” (M. C. Dionigi). Ancora oggi si mostra pressochè intatta, a raccontare  che il ferro e il fuoco di nessun nemico è riuscita a cancellarla.

"Porta Minore" o "Porta dei Falli"
“Porta Minore” o “Porta dei Falli”

Eretta con massi poligonali di grandi dimensioni perfettamente combacianti l’un l’altro, senza l’uso di nessun tipo di legante, le cui mura arrivano nel punto più alto a misurare circa 21 metri di altezza. Orientata secondo l’asse Est-Ovest, la pianta è un poligono irregolare, costruito con un pensiero e non totalmente condizionato dalla natura del terreno, le cui due porte di accesso, una sul lato nord detta “Porta Minore” o “Porta dei Falli” (“che – come scrisse la Dionigi – per soffitto presenta una scala rovescia come all’ingresso della piramide di Menfi, in Egitto”) e una sul lato sud, detta “Porta Maggiore” (il cui architrave che la sormonta pesa 27 tonnellate e seconda per dimensioni solo alla Porta di Micene), nelle misure seguono i canoni della sezione aurea che, secondo uno degli studiosi del luogo Ornello Tofani, si ripropone anche nelle proporzioni della pianta del’acropoli stessa.

"Porta Maggiore"
“Porta Maggiore”

La spontanea meraviglia alla vista della grandiosità delle suddette mura è tanta, come si deduce dalle parole della Dionigi: “non so spiegarvi quale stupore mi cagionasse l’aspetto di quelle mura, che secondo le mie osservazioni istoriche fatte sugli autori, suppongo costruite dai Pelasgi e che ora vengon dette opera ciclopea, per denotare la grandiosità e robustezza con cui vennero fabbricate”. La supposizione della Dionigi, che vede la realizzazione delle mura poligonali di Alatri ad opera dei Pelasgi, è oggetto di discussioni contrastanti tra archeologia ufficiale e ricercatori indipendenti: già tra gli archeologi della prima metà del secolo scorso, si diffuse l’affermarsi delle convinzioni (aprioristiche e poco giustificate), che l’opera poligonale, anche se intrinsecamente megalitica e così diversa dal modo di ragionare dei Romani, non fosse invece nient’altro che una delle tecniche costruttive della Roma Repubblicana. Come scrive il prof. Giulio Magli del Politecnico di Milano: “L’acropoli di Alatri è abitualmente attribuita ai Romani con la fretta tipica di una certa archeologia “ufficiale”, di fatto però non se ne conoscono con certezza, né l’età, né lo scopo, né gli artefici”. Se non si può affermare con certezza chi ne furono gli artefici, si può però affermare che alla vista, le file di pietre di taglio più piccolo di epoca romana, contrastano palesemente con la magnificenza delle antiche costruzioni poligonali. Lo studioso A. De Cara, affermava: “Non l’avrebbero certamente fabbricate, se non con l’architettura propria dell’età che allora correva, cioè con la romana, la quale non ha nulla a che fare con la pelasgica. Quei tratti di mura ristorate dalle colonie sono la più chiara prova dell’antichità e preesistenza delle città pelasgiche nel Lazio e le aggiunte e i restauri, con massi quadrati sono propri dell’arte e dello stile de’ Romani” e l’architetto G. B. Giovenale scriveva in merito: “Introdotto una volta lo stile romano, non si fabbrica più con lo stile di secoli addietro, come non si fabbrica a’ di nostri col reticolato romano”. Seguendo le argomentazioni degli autori sopra citati, insieme a quelle del viaggiatore e letterato F. Gregorovius e a quelle dello studioso L. Ceci fino ai più recenti (ma non meno meritevoli) ricercatori, “la mente si china al mistero di un‘origine che mostra i lineamenti di una grande storia”…

  • Sono gli Hetei venuti da lontano

…è la storia dei Pelasgi, che ha alimentato nei tempi miti e leggende, le cui notizie ritroviamo negli scritti dell’antica tradizione classica di Omero, Esiodo, Ecateo, Erodoto, che li vogliono abitanti delle vaste zone che poi divennero greche e in quasi tutte le isole dell’Egeo. Ed è proprio qui che presero la denominazione di ”Pelasgòi” che greco non è come il De Cara affermava: “ammettendo che i Pelasgi arrivarono dall’Asia Minore in Grecia, tale nome i greci lo appresero solo da quella gente immigrata”; analizzando il nome sappiamo che “Pel” significa emigrare, fuggire lontano, diventare ospiti e “Asgi” sta per asikoi, asiki e per sincope, askoi o aski che è un derivato di Asi, Ati, Hati, “popolo di Hat-i-a” oppure di Hati-a cioè “popolo dell’Asia” e l’Asia dei tempi antichi era la dimora degli Hetei o figli di Het. Pelasgi ed Hetei erano una stessa civiltà: gli uni lontani dalla patria, gli altri in patria. I Pelasgi dunque erano gli Hetei emigranti, che fecero altrove la loro storia; quelli che oggi chiameremmo “Hittiti” che risultano essere la stessa civiltà che nella Bibbia e in Siria erano chiamati Hittim, Cheta o Xita dagli Egiziani, Hatti o Hati in Cappadocia, Asia Minore, dagli Assiri e dai Caldei. Nel 1915 l’archeologo orientalista B. Hrozný, decifrò le iscrizioni dell’archivio di Bogazkòy, capitale dell’impero Hittita (Hattusa), ad oriente dell’attuale capitale della Turchia, Ankara. Il glottologo E. O. Forrer, esaminando l’insieme dei frammenti rinvenuti, in essi notò otto lingue diverse: sumerico, accadico, hittita, indiano primitivo, harrico, proto-attico, luvio e balaico. Questo a conferma che gli Hetei, erano un insieme di popoli. La lingua degli Hittiti di Hattusas, non era la lingua della popolazione che abitava il paese degli Hetei; quelli che parlavano la lingua che noi chiamiamo hittita erano in origine Indoeuropei, immigrati in Asia Minore, sottomettendo quelle popolazioni antiche del paese di Hatti,  fondendosi con esse e subendone gli influssi linguistici. Quindi la civiltà del paese dei figli di Het, ha radici di stanziamento che risalgono almeno alla fine del IV millennio a.C.. Verso la fine del III millennio una schiera di conquistatori venne tra i figli di Het se ne mise a capo e unificò le città-stato politicamente in lotta tra di loro e nacque un grande impero. Sono gli Hittiti della storia. Si impadronirono della Siria del nord, della Babilonia, stabilirono contatti diretti con l’ambiente etnico mesopotamico e quasi tutta l’Asia Minore, divenendo una delle più grandi potenze del mondo di allora. “La civiltà hittita – scrive J. Marcadè, professore di archeologia dell’università di Bordeaux – non rappresenta un inizio, bensì un risultato finale, una civiltà scaturita da altre civiltà, le quali, già molto tempo prima, vivevano in questo paese, arricchite di influenze straniere e stimolate da vicendevoli contatti”.

  • Lungo le strade dei loro cammini

Questa civiltà che affronta nei tempi migrazioni e spostamenti, il cui percorso parte dal Caucaso, attraversa l’Asia Minore divenendo il popolo degli Hittiti, passa nelle isole egee e in Grecia divenendo Pelasgi, arrivando fino da noi in Italia e ci fa ritrovare, oggi, acropoli e mura in opera poligonale, come quelle di Alatri. L’archeologo italiano S. Moscati descrive il primo nucleo della vita organizzata degli Hittiti, quale la  fortezza montana, cinta da mura, con una porta (a duplice ingresso per non interrompere il sistema di difesa) con grandi blocchi di pietra da cui emergono a protezione leoni e sfingi alate. Ne è l’esempio Bogazkòy  (Hattusa), dell’epoca imperiale hittita del XIV-XIII secolo a.C. costruita con autentiche mura megalitiche, con blocchi di pietra della lunghezza spesso superiore ai 2 metri.  Non si può non notare il legame che hanno Bogazkòy, Euyuk, Assarlik, Mindo e altre antiche città dell’Asia Minore con le costruzioni di Creta, Micene, Tirinto, Orcomeno e con quelle di tante altre città greche che vantano ancora un apparato architettonico poligonale-megalitico, costruite con la tecnica per la quale le mura di Alatri sfidano ancora i secoli. Su Tirinto scrive lo studioso F. H. Stubbings, citando Pausania, Apollodoro e Strabone: “I blocchi delle mura di Tirinto sono così grandi che la tradizione  attribuisce l’edificio ai giganti, i Ciclopi, invitati a questo scopo dall’Asia Minore; i confronti più vicini per questo tipo di fortificazioni sono in effetti quelli hittiti”. Anche ad Atene, la cui acropoli l’archeologia fa risalire al di la del periodo Miceneo e della tradizione Omerica, le fonti antiche chiamano “Pelasgicon” il suo muro di cinta perché secondo Pausania era stato costruito dai Pelasgi, come racconta anche Ecateo riportato da Erodoto. Afferma il Ceci a riguardo ”L’omotectia dei monumenti poliedro-megalitici dell’Asia Minore, della Grecia e dell’Italia, ci si manifesta etnica e tradizionale, anziché autoctona e spontanea”. Ma le somiglianze non le ritroviamo solo nell’apparato costruttivo che collega fra loro questi antichi monumenti, ma anche nelle simbologie che si ripresentano frequentemente. I leoni a protezione degli ingressi li ritroviamo come ad Hattusa, anche a Micene e secondo Don Giuseppe Capone (che dedicò una vita intera nell’intento di ridare il giusto merito e posto nella storia a quelle ormai tanto care mura) anche ad Alatri, affermando che il leone oggi a guardia dell’acropoli ”nel passato era invece a guardia di una porta come nelle antiche città di Hattusa di Micene di Euyuk, e Kabala ed è un simbolo comune nelle città dell’Asia Minore, scolpito generalmente in una delle porte a sud e il nostro non era di copertura ad una tomba romana come vogliono farci credere”; inoltre ritroviamo anche altri elementi leonini (zampe di leone) alla base degli stipiti della porta a sud-est della cinta muraria più esterna della città.

Nei rilievi rupestri di Yazilikaya, località nei pressi di Hattusa, gli Hittiti hanno lasciato scolpita la processione mitica, nella quale il dio maschile, da loro adorato, definito come “dio della Tempesta”, avanza con quarantacinque dee e personaggi maschili, verso la “dea del Sole Arinna”, nonché sua sposa, seduta su di una leonessa e assistita da due tori; seguita dal figlio su di un leone con ascia bipenne, seguono a lei venti persone, di cui le prime due sono poste sotto un’aquila bicefala. Il nome del dio maschile è scritto in cuneiforme con l’ideogramma IM o U e i cui simboli sono l’ascia con la quale schianta gli alberi della foresta durante le tempeste o la mazza con la quale produce il tuono (la sua voce) battendola sulle rocce. Lo si rappresentava accompagnato dal toro o a cavalcioni del toro stesso. Questo rilievo racchiude un insieme di simbologie facenti parte di un culto proprio della tradizione hetea, che ritroviamo dall’Asia Minore, passando con i Pelasgi per la Grecia, per Creta e arrivando in Italia centrale. Ad Alaca Huyuk, località dell’epoca imperiale hittita nell’attuale Turchia, a fianco della porta della sfinge troviamo scolpita in bassorilievo un aquila bicefala che afferra due lepri.

Bassorilievo presente nell'angolo sud-est dell'acropoli
Bassorilievo presente nell’angolo sud-est dell’acropoli

Il simbolo dell’aquila lo ritroviamo presumibilmente anche ad Alatri, in basso a sinistra sul lato est delle mura dell’acropoli, che in tempi addietro era posta a 3,50 metri di altezza rispetto al terreno (causa la costruzione dei manti stradali in epoche successive); scalfita dal tempo e forse anche dall’uomo è uno dei pochi bassorilievi ancora visibili dell’acropoli. Anche in Grecia ritroviamo l’aquila, considerata l’uccello divinatorio per eccellenza (più in generale, secondo gli antichi, gli uccelli erano considerati annunciatori profetici della volontà divina) e il fulmine sacro a Zeus, che richiama la folgore del dio della Tempesta degli Hetei. Erodoto ci tramanda che “i numi ai Greci pervennero dai Pelasgi, prima impararono queste cose gli Ateniesi e poi gli altri Greci e mescolati con essi abitavano i Pelasgi, fin quando questi non cominciarono a chiamarsi pure loro Greci”. A Cnosso ritroviamo l’ascia bipenne nelle mani della dea, considerata l’arma della divinità femminile o l’arma sacrificale connessa al sacrificio del toro che ritroviamo anche a Creta e nella località hittita di Catal Huyuk. “La somiglianza fra le religiose credenze e il simbolismo religioso de’ Pelasgi e degli Hetei, ci forniscono un’ultima prova dell’identità de’ due popoli. Gl’iddii venerati da’ Pelasgi, grandi, potenti e forti non sono altro che gli iddii guerrieri che vedemmo scolpiti sulle rupi di Iasili-Kaia, armati di spada o di mazza o di bipenne, corrispondenti altresì nelle sculture degli Hetei d’Asia Minore e de’ Pelasgi di Grecia e d’Italia, le figure cioè de’ leoni e altre somiglianti” affermava il De Cara.

Un’altra curiosità che può collegarsi al culto della popolazione Hetea e che ritroviamo in diverse zone da loro abitate è la simbologia fallica, usata come ornamento o come attributo di potere và a riassumere la carica energetica che è il fondamento dei ritmi di produzione agricola e della vita medesima nella sua totalità;  “Questo simbolo deve risalire in Grecia oltre il 2500 a.C. perché la dea della Fecondità, come la divinità maschile, l’Ermete itifallico, vi erano già venerati e secondo la tradizione greca furono i Pelasgi che insegnarono ai Greci ad effigiarli” (D. Levi). Se ne trovano tracce nell’Anatolia, nella Frigia, a Creta, nella città di Cnosso, sui frontoni delle porte, come anche ad Alatri sulla Porta Minore.

  • Come in cielo … così in terra

L’acropoli di Alatri, come la maggior parte delle strutture di tipo megalitico, è orientata archeoastronomicamente. Le popolazioni che le realizzarono trassero dal cielo, dalle stelle e dal sole, l’ispirazione, la posizione e talvolta anche il disegno. Secondo il già citato Don  Giuseppe Capone, non è da scartare l’idea che, nel caso di Alatri, l’ispirazione fosse venuta guardando nel cielo Castore e Polluce, i cui punti più luminosi sembrano ricalcare in terra la costellazione dei Gemelli. Questo perché di fatto in cielo esistono dei “poligoni”, sono quelli che l’uomo tende idealmente a formare unendo le stelle delle costellazioni con dei segmenti riportandoli poi in terra. Il rapporto con la natura ed in particolare con il cielo è stato da sempre una componente che ha influenzato la vita di quelle civiltà antiche e megalitiche, scandendone le attività pratiche (semina e raccolto), ma anche le attività religiose e politiche (feste e celebrazioni annuali). Come conseguenza di tutto ciò, talvolta, le conoscenze astronomiche vennero incorporate in modo sorprendentemente complesso nelle realizzazioni architettoniche, orientando gli assi delle strutture, seguendo i cicli solari e/o lunari e  indirizzandoli verso stelle brillanti nel cielo che avevano un determinato significato religioso. Don Giuseppe  Capone riflettendo sulla nascita della città, spiegava come la popolazione che arrivò sull’altura di Alatri per dare inizio alla costruzione delle mura, attese un raggio di sole del solstizio d’estate, affiorare su di una roccia che sarebbe divenuta poi il punto nevralgico dell’acropoli e punto più alto: “Gli antichi costruttori hanno orientato la nostra città per sentire dall’Oriente il potere dell’alba, come se avessero voluto trarre gli auspici di un tempo senza tramonto, per la città che affidavano al Dio Sole, in un giorno di solstizio. E il Sole ne indicò il centro, nell’incontro del primo raggio mattutino, con l’ultimo del vespro. Era il comportamento di una sensibilità religiosa, maturata in millenni di storia, che nulla ha a che fare con la leggenda o una qualunque fantastica interpretazione: è un messaggio scritto con le pietre dell’acropoli e con le pietre della cinta muraria”. Si creava così un legame tra cielo e terra e divenivano sacre le mura e le porte che venivano fondate insieme, come parti integranti ed insostituibili di un unico progetto.

Trovandoci davanti alla Porta Maggiore delle mura di Alatri sul lato Sud e proseguendo in direzione Ovest si possono notare tre nicchie, che anticamente si ritiene avessero una certa importanza durante i solstizi  e  i cui raggi del sole penetravano al loro interno e andavano forse a colpire delle pietre di un tempio antico, i cui resti si trovano subito dietro.

La porta minore illuminata durante l'equinozio d'autunno
La porta minore illuminata durante l’equinozio d’autunno

Di questi legami tra cielo e terra ne ha ampiamente parlato Ornello Tofani, che portando avanti i suoi studi ha scoperto che la “Porta Minore” ne è un esempio eclatante: durante le osservazioni in loco, si è reso conto che di notte nel campo visivo che si offre al termine in alto della scala, si ritrova la costellazione di Orione che oggi è visibile parzialmente ma che nel 1150 a.C. si scorgeva interamente; mentre di giorno durante gli equinozi viene completamente attraversata dal sole per la lunghezza di 17 metri arrivando ad illuminare Via Gregoriana alla base dell’ingresso, confermando così che la porta è orientata in modo tale da segnare per mezzo del sole il succedersi delle stagioni.

“Ai futuri studi il compito di valutare e se possibile confermare queste affascinanti ipotesi. Di sicuro, rimane il senso di aver iniziato a conoscere davvero, tramite ciò che è scritto nelle pietre e nelle stelle, l’antichità remota e affascinante di una città, nata da un raggio di sole che non si trova al centro di un paese esotico e remoto, ma in una bella valle, a pochi chilometri da Frosinone” (G. Magli).

 

Bibliografia:

  • Giuseppe Capone “La Progenie Hetea – annotazioni mitico-storiche su Alatri antica” Terza ristampa, 2009 Antica Stamperia Tofani
  • Marianna Candidi Dionigi “Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate dal Re Saturno”  Roma, 1809 Edizione Elettronica
  • Giovan Battista Giovenale “I monumenti preromani del Lazio” (dissertazione letta alla pontificia accademia romana di archeologia) Roma, 1900 Tipografia vaticana
  • Giuseppe Capone “Alatri, il nome antico di una città più antica – un’allettante ipotesi cullata dalla storia” 2002 Enzo Tofani editore
  • “Alatri, curiosando per la città” a cura di Nello Rinaldi
  • Ornello Tofani “Alatri, l’Acropoli ed i suoi misteri” 2010 Antica Stamperia Tofani
  • “I misteri della città di Alatri” documentario di Terra Incognita – Gli enigmi della storia

il sacrario monumentale dedicato a NICOLA RICCIOTTI

IMG_0228                      L’ITALIA S’E’ DESTA…

Bellissimo, oggi dopo l’ultimo restauro, appare nelle sue forme e colori eterni, così come da anni non succedeva più,il sacrario monumentale di Piazza della Libertà, infatti, proprio dopo averlo reso nuovamente godibile, torna a restituire ai passanti una storia che nessuno vuole dimenticare.IMG_0210 IMG_0213 IMG_0215 Monumento a Nicola Ricciotti e agli Eroi della Libert+á IMG_0211 IMG_0226

Nel complesso il monumento conquista per la sua stazza, il suo salire verso il cielo e per l’armonia delle sculture realizzate da Ernesto Biondi, che raffigurano una serie di persone strette e incatenate tutte attorno ad un obelisco sul quale svetta la figura di una dea femminile seduta e con un asta in mano……

Al passante non sfugge la sacralità del manufatto, esso reca inciso nel suo lato esposto a sud, verso la facciata della chiesa di San Benedetto, la dedica a Nicola Ricciotti: eroe frusinate  del risorgimento, fù da sempre fervente sostenitore dei temi dell’illuminismo, e lottò in tutta europa al fianco di tanti rivoluzionari per la libertà dei popoli.

Nella sua vita compì diverse azioni di stampo militare e politico, si consegnò ai suoi inseguitori solo dopo aver compiuto viaggi e insurrezioni  tra Francia, Spagna, Corsica, in tutta italia da nord a sud, era uomo fidato e fedele a Mazzini, stimato da Garibaldi a tal punto che, L’eroe dei due mondi, decise di chiamare uno dei suoi figli proprio con il nome ”Ricciotti”.

Il processo politico internazionale introdotto dai temi della rivoluzione francese in tutto il mondo, destò attenzione anche in ciociaria, infatti potremmo pensare a questa terra come il classico cuscinetto di protezione dello stato pontificio e di Roma, un territorio strategico in cui la chiesa aveva dislocato le proprie truppe, mantenendo ferrea la presa sulla popolazione contro ogni possibile insurrezione.

Non a caso in paesi come gli Stati uniti, la Francia, l’Inghilterra gli stessi ideali avevano libero sfogo pubblico, anzi, dettavano le linee guida per lo sviluppo della odierna civilta (“blocco occidentale” dell’emisfero), alcune nuove formazioni sociali prendevano il sopravvento politico in tutta europa, i ”free masons” si costituivano, e in italia il Mazzini diveniva la voce che guidava la rincorsa verso la repubblica.

La spinta illuminista non si era mai sopita, dunque urgeva cambiare le regole e dedicarsi alla latitanza, le botteghe si aprivano la notte, le cantine brulicavano di idee e fogliettini informativi che incitavano alla rivolta, questa fitta rete di connessioni riempiva anche le strade ciociare di Frosinone alta, sede sia delle truppe papali (nell’odierno palazzo della prefettura), ma anche di una fervente popolazione ribelle, da sempre, avvezza alla riscossa per la libertà.

Proprio in quegli anni, nasceva  un nuovo tessuto iconografico internazionale vero e proprio collante simbolico,  creatosi tra tutti i nuovi stati, riportava alla luce icone antiche dal lontano egitto,  a dimostrazione della laicità delle idee dei nuovi stati liberi, a Washinton venivano commissionati importanti lavori a pittori francesi e italiani, i nostri scalpellini venivano ingaggiati per costruire la sede del congresso, fino al giorno in cui a Parigi nasceva l’idea della statua della libertà; insomma  è da questi presupposti che nel giro di alcuni anni anche in italia si giunse ai primi tentativi di raffigurazione simbolica dell’Italia unita e libera.

Tornando al sacrario di frosinone questo capolavoro è chiaramente permeato dal lungo respiro delle vicende di cui sopra, e se anche vedrà la luce solo nei primi del 900, appare ribadire celatamente anche alcuni riferimenti a teorie “ostili” al papato, celate ad occhi poco attenti.IMG_0218

Se si osserva ad esempio la “colonna”, descritta da tutti gli articoli consultabili su diversi siti internet, altro  non è che un piccolo obelisco( come l’obelisco di luxor che dopo la rivoluzione fu posizionato in palce de la concorde???), cosa che ci aiuta a capire chi sia veramente la Dea che vi sieda sopra, essa, tra le tante dee pagane, e muse antropomorfe è quella più arguta e saggia, vestita di un abito leggiadro e con un copricapo  frigio, sostiene una lancia con tre fiaccole accese, simboli dei principi: libertè,fraternitè, egalitè;  ai suoi piedi,  uno scudo spezzato in battaglia recante la scritta smussata di “POPOLO”.

Interessante la veduta finale d’assieme del sacrario, ma ancor più tra le righe, l’intento di uno sforzo di allinearsi  e creare “un’icona illuminata”, capace di simboleggiare l’Italia del risorgimento; Le mie conclusioni mi portano a pensare che la dea non corrisponda alla dea Libertas, decantata dagli addetti ai lavori, la quale appariva solo in Roma e raramente nei suoi periodi storici,  mentre assomiglia molto di più in primis a Iside, dea egizia celebrata anche da “V.e.r.d.i.” nell’Aida, venerata  già dai sacerdoti di  luxor che ne custodivano il culto, dove anche Erodoto si recò in visita.

La storia si ripete…., come in altre importanti città (Roma, Parigi, Londra,Washington,etc.), anche a Frosinone questo lavoro scultoreo mette in luce qualcosa che appare immutato attraverso ormai più di un secolo, una sorta di sottile linea, infatti, lega la storia dal dopo rivoluzione francese ai giorni d’oggi tutta l’europa.

La storia delle battaglie, quelle immortalate dal Delacroix, in cui prende vita la nuova icona della “Marianne francese” che sventola vittoriosa il tricolore dopo la battaglia per la libertà, identica a quelle battaglie dei patrioti ciociari oggi immortalati mentre  sorreggono “l’albero della libertà”: l’asta con il berretto frigio che sfiora l’obelisco in questione; L’albero si issava in particolari cerimonie pubbliche, subito dopo la rivoluzione in francia, e simboleggiava la libertà acquisita dai cittadini, il nuovo corso istituzionale post rivoluzionario.

Le catene, simbolo del potere papale e anti unitario dell’epoca,  ben visibili tra le forme morbide e imponenti degli eroi alla battaglia, corrono dalle braccia di Ricciotti, e ci portano sulla parte opposta del monumento rivolta al lato nord, di fronte alle imponenti colonne doriche del palazzo prefettizio.IMG_0212

Da questo lato, la sorpresa diventa enorme alla vista di due busti maschili che si baciano, chiaramente nel segno dei riti massonici più frequentemente rappresentati, quasi nascosti dal grande mantello di un uomo che tiene in mano un papiro-pergamena lasciando perfino scorgere una iscrizione latina :

Si tratta di Aonio Paleario di Veroli, capace umanista, uomo colto studente alla Sapienza di Roma e  studioso affine alla riforma protestante nei circoli aristotelici di Padova e precettore presso la famiglia senese dei Bellanti, delle sue numerose attività ricordiamo le lettere di stima nei confronti di Erasmo da Rotterdam, e Lutero, prima del concilio di trento , al fine di elaborare la riforma tanto agognata in tutta europa per risolvere la situazione degenere che si era sviluppata nella chiesa.

..“ non è indecoroso essere battuto con la verga, essere sospeso alla fune, ficcato in un sacco, gettato in pasto alle bestie feroci, bruciato, se con questi supplizi la verità deve essere portata alla luce..” questo uno dei passi più intimi della vasta opera compiuta fino alla nomina come maestro di latino e greco presso Lucca.

A lucca accusato di sfruttare l’insegnamento ai giovani per promuovere la dottrina luterana riesce a scagionarsi e si rifugia a milano dove continua a colloquiare con i vescovi e i popoli del nord europa.

Le accuse non tardano a coinvolgerlo nuovamente, tanto da portarlo a Roma innanzi alla corte della santa inquisizione, nel processo infinito che lo riguarda decide di non sottomettersi alle richieste della corte rifiuta di portare ”l’abitello” e infine affida la sua vita al signore, affrontando l’impiccagione ed il rogo proprio nella città eterna.  Aonio Paleario non fu un eroe coevo al Ricciotti, né all’ Angeloni, fu piuttosto un umanista che pagò con la vita la sua ribellione alla legge romana.

Nel 2012 i resti dell’Angeloni furono trasferiti da Londra e riportati nel capoluogo, inseriti nel sacrario di cui ci occupiamo, grazie all’impegno del Grande Oriente Palazzo Giustiniani di Roma, anche per la parentela tra i due frusinati nati a 42 anni di distanza, soprattutto per l’affinità delle idee rivoluzionarie e per aver condiviso  l’esilio e la persecuzione.IMG_0224

Il Mazzini in una lettera attesta stima per lui, e ne ricorda le capacità alla storia.

Concludo con un invito al pubblico a non lasciare che il tempo e l’incuria passino senza aver reso un commiato ed uno sguardo a questo monumento per la libertà.

Dal punto di vista di spunti per la ricerca sottolineo ai più curiosi la necessità di approfondire le geometrie urbanistiche della città di cui si scrive, infatti oltre ad aver impressi nei marciapiedi un infinità di simboli affini alla massoneria non mi stupirebbe se ad una attenta analisi, anche nel disegno e nella collocazione di monumenti e piazze, se fosse celato un ampio disegno simbolico, come l’allineamento alle stelle di iside e osiride di orione, o chissà quale altra costellazione, intanto posso garantire la completa assenza nella zona centro storico dei riferimenti urbanistici dei romani come cardo e decumano,…. ai posteri l’ardua sentenza.

appunti sulla rocca di frosinone

antica stampa (google)

FROSINONE ERA…

Cenni di storia perduta

Sarà capitato anche a voi,..trovarvi a passare  per la splendida pianura irregolare della Valle del Sacco, proprio nel suo centro, ed attraversare le ridenti vegetazioni della campagna che ancora oggi cinge la vecchia Via Casilina, nel tratto che, combaciando con la mitica Via Latina, accompagna i viandanti in direzione sud nella tratta Ferentino Frosinone.

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palazzo della prefettura (Fr) P.Ruggeri www.megalithic.it

Scendendo gradatamente fino a trovarsi di fronte alla collina su cui si affaccia il campanile della città capoluogo della Ciociaria, lo sguardo si avvolge attorno alla sfolgorante costruzione che accende di luce il centro storico, un palazzo che si staglia enorme, quasi fosse una piccola fortezza, candidamente posta sul punto più alto della collina di arenaria che costituisce il nucleo della antica Frusino.

Quello che rapisce l’occhio, man mano che ci si avvicina, è la solitudine dello stesso palazzo nel panorama, questo è infatti l’unico edificio che svetta per mole e per bellezza.

All’occhio incuriosito di un amante delle antichità non può sfuggire la sua posizione dominante sul territorio circostante e la inconfondibile riconoscibilità dell’opera architettonica creata per destare attenzione.

Allo stesso modo, ad una prima analisi, appare troppo moderna la sua estetica forma per combaciare con l’idea di antica fortezza che indissolubilmente possiede.

Per spiegare meglio al curioso visitatore di cosa si tratti non resta che attivare, come in una ricerca al computer, un moderno zoom, ponendo l’obiettivo sulla monumentale opera in questione, per descrivere in un solo respiro il segreto che avvolge il centro storico di Frosinone e la maestosa sede dell’odierna prefettura.

L’attuale sede istituzionale infatti non può che essere il risultato della ricostruzione moderna di un palazzo ben più antico.

Prima di proseguire la narrazione preciso che in questo racconto sibillino che concitatamente mi accingo a completare, non si trovano tante date disseminate come briciole di pollicino sulla strada della verità.

Come avrebbe voluto Erodoto, troverà spazio in queste poche righe, un passato tramandato oralmente dagli anziani nati e cresciuti sulla rocca, perchè lo storiografo deve anche ascoltare i vecchi savi del posto per non perdere la loro conoscenza.

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foto A.Affinita www.megalithic.it
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il particolare di Frosinone con le torri della rocca e il filo delle mura foto A.Affinita www.megalithic.it

Si dice che li dove oggi è collocata Piazza della libertà, proprio di fronte alla chiesa di San Benedetto, tra le più antiche della città, vi fosse un castello che aveva maestose mura e due grandi torri, all’interno del quale erano state costruite tante segrete e tanti locali per la raccolta delle armi, degli animali, e di ogni altro tipo di approvvigionamento necessario per resistere agli assedi più ardui.

Sembrerà un eresia ai detrattori della nostra città, eppure, fu proprio così, moltissimi anni fa per “guardare” tutto il territorio circostante da una posizione di supremazia e scoraggiare anche il più temibile dei nemici, a Frosinone, era stato eretto un palazzo circondato da mura, in seguito distrutto e ricostruito più volte nel corso dei secoli da diversi padroni potenti, più o meno amati dalla cittadinanza.

Un affresco  restaurato da poco, presente nella piccola e meravigliosa chiesa ottagonale posta a sud, appena fuori del centro storico, chiamata Madonna della delibera,( dapprima dedicata a San Magno), può rappresentare lo splendore dell’antico castello frusinate esistito e sicuramente temuto nel medio evo per esser non un semplice orpello architettonico cittadino.

Basterebbe questo a lasciarci erroneamente ipotizzare che, proprio durante l’epoca oscura, vista la copiosità degli attacchi subiti dai comuni italiani a causa delle continue ordalie compiute da predoni barbari, la costruzione delle mura e di un palazzo a difesa dei punti strategici della città per scopi difensivi sarebbe stato ciò che effettivamente successe.

Amici faremo bene a fondare un dubbio su tali tesi perchè, sarebbe davvero illogico pensare che precedentemente al medio evo sulla cima della collina non ci fossero le mura ed il palazzo.

giuesppe de mattheis
http://himetop.wdfiles.com/local–files/giuseppe-de-matthaeis-tomb

Infatti se leggiamo attentamente le notizie, divulgate anni addietro da un nostro caro concittadino, l’erudito Giuseppe De Mattheis (1806 d.c.), troveremo riscontri sull’antica frusinone nell’anno di Roma  648 (105 d.c.).

Il famoso Tito Livio, narrava di alcuni prodigi accaduti in città, precisamente, sulle sue mura e sul suo palazzo incredibilmente bersagliato da sassi caduti dal cielo (meteoriti?) :”.. murus aliquot locis, et porta de coelo tacta; in Palatio lapidibus pluit.”; aggiungendo la personale intuizione che si parlasse del palazzo dell’antica prefettura romana.

Della rocca, sappiamo per certo che fu sede in altre epoche anche del governo dello stato pontificio e vi stazionò l’intero contingente francese durante l’occupazione del famoso generale Championet.

Forse proprio per questi ultimi episodi la sua magnificenza non rimase stagliata nei cuori dei cittadini, infatti successivamente agli invasori francesi, durante l’unificazione dell’Italia, essendo questa città sede di una fervente carboneria e di repubblicani convinti, fu più volte svuotata e rastrellata da tutti i dissidenti ivi giudicati e rinchiusi.

Qualcuno, solo qualche anno addietro, mi raccontava che in quei tempi, di notte, durante le torture subite dai condannati, tutto il paese ascoltava impietrito le urla e gli strilli dei poveri eroi del risorgimento, in quanto erano talmente forti e stridenti da riuscire a risalire dai sotterranei di piazza della libertà ove oggi è collocato non a caso un monumento ai patrioti italiani.

Lo stupore che colpisce chi nulla sapeva di tanta tradizione fa strada all’idea di una roccaforte davvero importante per i tempi, tanto da esser abbellita anche da una facciata disegnata da Michelangelo in persona.

Pare che l’artista con il suo seguito, proprio per omaggiare la sede pontificia di Frosinone, disegnò la facciata con colonne doriche, durante il suo periodo di soggiorno curativo presso le terme della vicina Fiuggi.

Dell’antica cittadella ora conosciamo qualcosa di più saporito e curioso, ma tale nozione funge solo da trampolino per altre storie più antiche non scritte, tutt’ora udibili per le vie  dell’antico borgo, infatti proprio dalle segrete del palazzo e dalla costituzione arenaria della roccia su cui fu fondata la amata “frusna” trae spunto la leggenda che narra di alcuni cunicoli antichissimi e segreti, utilizzati in vari modi nel corso dei secoli.

santa maria frosinone
(google)

Si narra dell’esistenza di un intero reticolo di passaggi interrati che celatamente si districa  tra camere sotterranee vicine e contigue posizionate sotto l’odierna pavimentazione.

Dalla prefettura verso la cattedrale di Santa Maria, attraverso tutti i palazzi più antichi del centro storico, corre da sempre l’acqua, il bene più prezioso, che veniva raccolta in tante cisterne (romane e forse preromane) per garantire la sopravvivenza anche nei periodi più bui.

Inoltre in tutta la zona compresa un tempo dalle mura (probabilmente romane) che sono parzialmente visibili ancora oggi, l’esistenza di alcune “cantine-segrete”, testimonia il collegamento sotterraneo tra le case e l’antica collegiata.

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esempio di livello della rete di cunicoli, (cantina hotel garibaldi) p.ruggeri www.megalithic.it

La pianta dei cunicoli non esiste ma le testimonianze tramandate fanno riferimento a trafori della collina da parte a parte, passaggi segreti sia nella parte bassa, sia sulla sua cima.

Nell’ultimo conflitto mondiale gli alleati bombardarono tutto il centro storico distruggendo . grandi magazzini localizzati in Via Giovani amendola, anche questi locali possedevano passaggi nella montagna.

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interno cantina Garibaldi, in alto il segno degli antichi scavi. P.Ruggeri www.megalithic.it

La nostra rocca poggia evidentemente su una gigantesca groviera di fango consolidato?

I cunicoli sono nati per il naturale sfogo delle acque o sono stati scavati dall’uomo?

Tali passaggi vennero scavati in corrispondenza del percorso del sole o delle stelle nella volta celeste sovrastante?

Chi ha usato questi cunicoli nei secoli?

Guicciardini_M_Francesco_La_Historia_dItalia
da wikipedia

Secondo quanto racconta il Guicciardini :”..finalmente il vicerè, messi insieme 12 mila fanti, dè quali dagli Spagnuoli, e Tedeschi in fuori condotti in sull’armata, la maggior parte erano fanti comandati, si pose con tutto l’esercito il di 21 decembre a campo a Frusolone, terra debile, e senza muraglia; ma alla quale succedono in luogo di mura le case private, e la grotta stata messa in guardia da’ capitani della chiesa, per non gli lasciar piedi nella campagna, e v’era anche vettovaglia per pochi dì: nondimeno il sito della terra, che è posta sopra un monte dà facoltà a chi è dentro di potersi sempre salvar da una parte, avendo qualche poco di spalle, il che faceva più arditi alla difesa i fanti che verano dentro oltre all’essere de’migliori fanti italiani, che allora prendessero soldo;..”

Io ritengo possibile che l’uomo antico, che abitava la zona da sempre, conoscendo la facilità di ricavare sentieri nell’arenaria, abbia praticato trafori, cunicoli e sentieri interrati( gli etruschi hanno lasciato testimonianze di questo tipo nei loro luoghi sacri utilizzati per il culto della madre terra,etc.).

Inoltre secondo la tesi del De Mattheis che colloca Frosinone tra le città ciociare di diritto più antiche del lazio, va precisato che la stessa era città dei Volsci e non degli Ernici, considerata certamente dai romani “dura” ed indomabile.

L’attuale cattedrale poggia sull’antica acropoli, proprio dove un tempo era collocato il tempio dedicato a marte, il più importante della antico centro.

Nonostante qualche roccia dell’antica cinta muraria sia presumibilmente posta come base dell’imponente campanile medievale, oppure utilizzata come materiale di riempimento in altre zone limitrofe, non si rintracciano altre testimonianze o reperti, ne rocce megalitiche.

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p.ruggeri www.megalithic.it

Un masso di grandi dimensioni scolpito in basso rilievo, raffigurante una protome bovina, attualmente adagiato all’aperto, nel parco delle colline, sembra l’unico sasso residuo degno di nota, rinvenuto durante gli scavi presso Via roma non lontano dall’anfiteatro.

frosinone-mappa-tour

Per quanto riguarda la parte bassa del capoluogo sono state scoperte alcune necropoli preromane, e da ultimo vicino a piazzale De Matteis sono riaffiorate le terme romane con mosaici ancora intatti, probabilmente risalenti all’età in cui venne creata una colonia di veteres romani.

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p.ruggeri www.megalithic.it

In alcuni studi recenti incentrati sulle tecniche costruttive di mura poligonali (MAGLI) apparentemente realizzate dal popolo dei pelasgi, chiaramente identificati fin dall’antichità dagli storici e storiografi con l’appellativo di “costruttori di mura”, si va chiarificando la capacità di questi popoli di apportare progresso anche per l’approvvigionamento dell’acqua alle acropoli e ai campi agricoli sottostanti, con la costruzione di cunicoli che ancora oggi destano impressione come opere di ingegneria rare e irripetibili.

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i due archi gemelli di Via Giovanni Amendola P.Ruggeri www.megalithic.it
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i due archi gemelli di Via Giovanni Amendola P.Ruggeri www.megalithic.it

Chissà, forse proprio loro che osservavano la collina nostrana dall’alto delle loro città montane, anche conosciuti come popolo dei ciclopi, data la maschera che indossavano per forgiare il ferro ed estrarlo dalle cave, per la loro caratteristica fondamentale di intimità con la terra e le rocce, saranno stati i primi a scavare nella roccia frusinate.

Per concludere, come nel caso del palazzo della prefettura, anche la nostra acropoli scomparsa merita uno studio che ponga l’interrogativo sul perché ci siano tante differenze tra questa città e le città megalitiche contigue.

mura di frosinone
Francesco Daniele (probabile tracciato antico mura)

La differenza fondamentale appare nella costituzione del terreno della collina e la mancanza delle cave limitrofe di rocce calcaree solitamente utilizzate per l’erezione di mura megalitiche, sembra comunque ingiusto liquidare in questo modo ogni paragone e non porsi il dubbio che un luogo tanto prezioso all’uomo antico non fosse degno di attenzioni pari alle città limitrofe.

Spero possa avere  inizio anche una ricerca archeo-astronomica sul nostro centro storico così come fatto ad Alatri per la sua acropoli, tenendo conto che Frosinone per noi cittadini resta una città che da sempre guarda dall’alto la valle circostante.

Frosinone 23/05/2012

PAOLO RUGGERI

bibliografia

www.madonna della neve

www.wikipedia

Storia di Frosinone : Giuseppe De Matteis

Guicciardini_M_Francesco_La_Historia_dItalia