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Droni: l’evoluzione della ricognizione aerea nell’indagine archeologica

La��archeologia, oggi, si avvale di diversi strumenti tecnologicamente avanzati. Tra questi il DRONE o a�?APRa�? (Aeromobile a Pilotaggio Remoto), un velivolo privo di pilota, comandato a distanza, che sta rivoluzionando la��indagine archeologica. Utilizzato generalmente per le operazioni di ricognizione e sorveglianza militare, oggi il suo impiego interessa molteplici ambiti applicativi, quali: agricoltura, salvaguardia dell’ambiente, operazioni di forze dell’ordine e protezione civile, beni culturali, cinema e altro ancora.

Esempio di drone. (immagine presa da atsenterprise.com)
Esempio di drone.
(immagine presa da atsenterprise.com)

Nel campo da��interesse storico e archeologico, il drone, puA? essere adoperato secondo diverse modalitA�, in base alle esigenze e finalitA� di studio.

A? stato impiegato per mappare remoti siti funerari della cultura Moche, in PerA?, per ricostruire immagini tridimensionali delle rovine Gallo-Romane sepolte sotto le autostrade svizzere, per monitorare alcune aree archeologiche, in Giordania, oggetto di ripetute attivitA� di spoliazione e, ancora, per individuare un quasi inaccessibile sito di arte rupestre nel sud-ovest americano; ma questi sono solamente alcuni esempi.

Il drone A? uno strumento che interessa maggiormente la ricognizione aerea, fase fondamentale del lavoro sul campo della��archeologo, che permette di ottenere una quantitA� di informazioni utili, sul sito archeologico da��interesse, con la��impiego di tecniche di prospezioneA�non invasive. Mentre in precedenza, la ricognizione aerea, era prevalentemente utilizzata per scoprire ed individuare i siti archeologici, successivamente scavati, oggi A? una pratica di grande importanza per documentarli, interpretarli e per controllarne i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni e il drone sta avendo in queste pratiche un posto da��eccellenza.

Ma torniamo indietro nel tempo, quasi agli albori del secolo scorso. Era il 1899 quando la��illustre archeologo Giacomo Boni, affiancato dal comandate della Brigata Specialisti del Genio Militare Maurizio Mario Moris, intuA� per primo la��utilitA� della fotografia aerea per la documentazione archeologica. Le prime foto vennero scattate, in occasione degli scavi del Foro Romano, da un pallone aerostatico.

Roma, Comizio, area centrale del Foro. Foto scattata da pallone aerostatico dalla Brigata Specialisti del Genio Militare (1899). (immagine presa da academia.edu/2063157)
Roma, Comizio, area centrale del Foro. Foto scattata da pallone aerostatico dalla Brigata Specialisti del Genio Militare (1899).
(Immagine presa da academia.edu/2063157)
Basilica di Massenzio, Roma. La sezione aerostatica del Genio Militare impegnata nella fase di decollo del pallone. Inizi del Novecento. (immagine presa da academia.edu/2063157)
Roma, Basilica di Massenzio. La sezione aerostatica del Genio Militare impegnata nella fase di decollo del pallone. Inizi del Novecento.
(Immagine presa da academia.edu/2063157)

Una��altra importante applicazione archeologica della tecnica fotografica aerea, sempre tramite pallone aerostatico, risale al 1911, quando vennero eseguite dalla��archeologo Dante Vaglieri le fotografie della cittA� di Ostia Antica.

Ostia antica (Vaglieri)
Ostia Antica, 1911. (Immagine presa da archeogr.unisi.it)

Negli stessi anni furono fotografate Pompei e il sito di Stonehenge in Inghilterra. Nel 1913 Sir Henry Wellcome eseguA� per mezzo di un aquilone fotografie zenitali (verticali) degli scavi da lui condotti in Sudan. E ancora, nel 1915 gli aviatori francesi fotografarono la cittA� di Troia, su suggerimento dello storico francese JA�rA?me Carcopino.

Gli archeologi si resero conto che la ricognizione aerea e di conseguenza la fotografia aerea avrebbe costituito, da lA� in avanti, una delle maggiori conquiste della��archeologia del XX secolo. Disporre di fotografie che permettevano di vedere dalla��alto il sito, oggetto di studio, nella sua totalitA� sarebbe stato certamente un elemento importante, da integrare alla ricognizione di superficie, utile nella scelta, nella definizione e nello studio della��area.

In Europa, le prime ricerche sistematiche furono ad opera del pioniere O.G.S. Crawford, che in collaborazione con il maggiore G.W.G. Allen della��aviazione militare inglese, diede il via, in Inghilterra, dal 1922 in avanti, ad un laborioso lavoro di ricognizione aerea, grazie al quale scoprA� un gran numero di insediamenti preistorici e protostorici. Raccolse, inoltre, importanti dati per ricostruire il quadro topografico della colonizzazione romana del suo paese.

In Siria, a partire dal 1925, un precursore come Padre Antoine Poidebard cominciA? a definire la situazione topografica degli insediamenti romani di Palmira, Chalcis, della��alto DjA�zirek e individuA? i porti di Tiro e Sidone. Pose inoltre le basi scientifiche della fotointerpretazione archeologica. Un lavoro parallelo venne svolto in Iran, qualche anno dopo, dalla��aviatore tedesco Erich Schmidt. Analogamente nel 1927 aeroplani militari fotografarono strutture su pali di quercia della fine della��EtA� del Bronzo, nelle acque del lago di NeuchA?tel, in Svizzera.

In America, la��archeologo Alfred Kidder volA?, nel 1929, insieme al pioniere della��aviazione Charles Lindberg, sopra le regioni centrali e orientali dello YuacatA?n, in Messico, scoprendo diversi nuovi siti.

In Italia A? nel 1938 che si possono avere le prime pratiche di fotointerpretazione. La��archeologo Giuseppe Lugli eseguA� una serie di ricerche di topografia antica, servendosi delle fotografie aeree scattate appositamente, delle cittA� di Anzio, del territorio di Ardea, Lavinio e Lanuvio, del tracciato della via Appia tra Gravina di Puglia e Taranto e della cittA� e del territorio di Crotone.

Durante il periodo bellico A? la��Italia il paese che offre i risultati piA? interessanti: il professore di etruscologia, Antonio Minto, pubblicA? uno studio sulla topografia di Populonia che costituA� uno dei primi esempi della��uso di materiale aerofotografico per la redazione di carte archeologiche. Il tenente John S. P. Bradford, usando aerofoto, riprese da lui stesso durante la guerra, identificA? numerosi abitati preistorici in Puglia, scoprA� ed individuA? un gran numero di tombe dei centri di Cerveteri e Tarquinia, mentre la��archeologo Ferdinando Castagnoli terminA? studi basilari sui resti della centuriazione, ricostruendo le divisioni agrarie di Luni, Lucca, Cosa, Cales, Alba Fucens, Nocera, Pompei, Nola, Alife, Aquino, Spello e i piani urbani dei principali centri antichi a pianta regolare; individuA?, inoltre, la Pyrgi etrusca. Egli, collaborA? con Giulio Schmiedt (responsabile della sezione di fotointerpretazione della��Istituto Geofisico Militare) alla realizzazione di schemi ricostruttivi della planimetria di molti centri greci della��Italia meridionale e della Sicilia. I due collaborarono anche al fondamentale studio su Norba, importante esempio metodologico di fotogrammetria finalizzata alla��uso archeologico.

Conseguenti sviluppi di queste pratiche si ebbero a partire dal termine della Seconda Guerra Mondiale, data laA�crescente disponibilitA� di materiale aerofotografico e grazie alle intuizioni e alle capacitA� di studiosi che portarono la��utilizzo della fotografia aerea, nella��indagine archeologica, ad un livello sempre piA? avanzato. Oramai, la��interesse era focalizzato, oltre che sulla��aspetto fotointerpretativo del documento fotografico, anche sulle modalitA� e tecniche della ripresa aerea e sulle rappresentazioni cartografiche del territorio, sia come cartografia di base (supporto indispensabile per la conoscenza e per la tutela)A�sia come fotogrammetria analizzata alla��uso archeologico.

Le fotografie aeree vennero successivamente raccolte in biblioteche specializzate, sia a livello regionale, sia in piA? grandi collezioni a livello nazionale. Ne A? un esempio la National Library of Air Photographs in Inghilterra che dispone di 0,75 milioni di stampe oblique specialistiche e di piA? di 3 milioni di fotografie di ricognizioni verticali che documentano un periodo che va dal 1940 al 1979. In Italia A? presente, dal 1958, l’Aerofototeca Nazionale, la struttura di raccolta e di studio del materiale aerofotografico relativo al territorio italiano,A�che ha acquisito nel corso degli anni un patrimonio di oltre 2 milioni di immagini, raccolto in diverse collezioni che vanno dalla fine della��Ottocento fino agli anni a��90 del Novecento.

Aquiloni, palloni aerostatici, velivoli con pilota, hanno dato il loro ampio contributo alla fotografia aerea archeologica. Adesso, sembra essere arrivato il tempo dei droni, strumenti che si stanno dimostrando, negli ultimi tempi, particolarmente utili per la ricognizione territoriale legata al rilievo, allo studio e alla tutela delle aree archeologiche.

“Negli ultimi 5-7 anni sono state sviluppate una serie di tecnologie che rendono i droni molto interessanti”, ha detto Austin Chad Hill, un archeologo ed esperto di questi velivoli alla University of Connecticut, che sta contribuendo alla ricerca della��archeologa Morag Kersel in Giordania, “si possono equipaggiare con magnetometri, barometri, GPS e tutti i tipi di telecamera. Possono fornire un’incredibile quantitA� di dati”. La��archeologo ha affermato che neanche la normale fotografia aerea A? altrettanto utile, poichA� il drone in volo riesce a catturare molti piA? dettagli portando, cosA�, notevoli vantaggi.

Austin Chad Hill alle prese con un drone. (Immagine presa da anthropology.uconn.edu)
Austin Chad Hill alle prese con un drone.
(Immagine presa da anthropology.uconn.edu)

Il costante crescendo del suo utilizzo, inoltre, sta incalzando lo sviluppo di software applicativi per la fotogrammetriaA�a livelli sempre piA? elevati per quanto riguarda risoluzione, precisione planimetrica e altimetrica.

Controllato da terra, questo velivolo, puA? registrare immagini ad alta risoluzione, sia in movimento sia stazionarie, trasmesse in tempo reale ad un visore o memorizzate. Una volta acquisite, le immagini vengono rettificate, interpretate e integrate con altri dati archeologici, per creare elaborazioni in 2D e 3D. A�Potendo scattare immagini geolocalizzate (Gps integrato) A? possibile avere una mappatura, della��area di studio, con una precisione centimetrica e modelli di rilievo tridimensionale, di cui si puA? disporre per una navigazione virtuale del sito archeologico, che offrono informazioni sulla distribuzione spaziale delle strutture e dei reperti della��area.

La funzione primaria di questo strumento A? di rendere realizzabili fotografie aeree a bassa quota, permettendo la��accesso aA�punti di vista non raggiungibili in altro modo e di realizzare in modo agevole fotografie zenitali, superando di gran lunga le possibilitA� offerte dalla��utilizzo dei metodi convenzionali, per quanto concerne prestazioni, costi e versatilitA� da��impiego.

La��archeologa Rita Paris, in collaborazione con la societA� ArcheoStudio, ha spiegato che A? stato possibile eseguire con il drone un rilievo sulle alte arcate della��acquedotto dei Quintili di Roma, per facilitarne i successivi lavori di restauro. a�?Senza di esso – ha affermato la Paris – non avremmo potuto eseguire un rilievo della sommitA� dell’acquedotto, se non montando dei ponteggi”, questo a conferma del fatto che l’utilizzo del drone riduce notevolmente sia i tempi che i costi di questo tipo di operazioni.

La crescita di questo strumento A? stata rapida, oltre che dal punto di vista tecnologico, dal punto di vista imprenditoriale. Negli ultimi due anni, si sono svolte iniziative, eventi e conferenze, in cui manager di aziende specializzate, sono intervenuti per presentare vari modelli di drone rivolti a tutti gli ambiti in cui, questo strumento, trova applicazione. Ed A? nella capitale italiana che si A? svolta, lo scorso anno, la prima edizione del a�?Roma Drone Expo&Showa�?, un vero e proprio luogo da��incontro e promozione, il primo grande evento in Italia dedicato agli Aeromobili a Pilotaggio Remoto, che ha visto questa��anno la seconda edizione.

roma drone
Roma Drone Expo&Show 2014 – Roma. stadio Berra. (Immagine presa da romadrone.it)

 

Da una parte alla��altra del pianeta, pare che gli archeologi si rivolgano alla moderna tecnologia del drone anche per difendere e monitorare siti in pericolo.

Luis Jaime Castillo, vice ministro della cultura del PerA? e docente di Archeologia presso la Pontificia UniversitA� Cattolica di Lima, dirige da anni le ricerche incentrate sulla civiltA� Moche (o Mochica) che fiorA�, nelle valli della zona settentrionale del PerA?, fra il 200 a.C. e il 1000 d.C. circa. Il dottor Castillo, negli ultimi anni, si A? avvalso della��impiego di droni per mappare, monitorare e salvaguardare gli antichi tesori del suo paese.

In molte zone del PerA?, la crescita costante della popolazione ha indotto le imprese di costruzioni, a edificare anche dove non si dovrebbe. Per far spazio a nuove abitazioni una di queste, ad esempio, A? stata capace di demolire una��antica piramide nei pressi di Lima. Per fronteggiare il problema, Castillo e il suo team, hanno attrezzato i droni con telecamere termiche, per individuare gli insediamenti sepolti sotto terra. Hanno creato le mappe del territorio per stabilire i confini di questi insediamenti entro cui proteggerli, iscrivendoli in pubblici registri, per prevenire la��evolversi di questa disastrosa situazione.

La loro, A? una corsa contro il tempo per proteggere il patrimonio archeologico del paese, che rischia di essere distrutto o sovrastato da costruzioni illegali.

Il PerA? ha circa 100.000 siti da��importanza archeologica, di questi, solo 2.500 circa sono stati mappati e solo 200 circa sono ufficialmente iscritti nei pubblici registri, questo a causa delle poche finanze e risorse umane disponibili. Ca��A?, indubbiamente, ancora molto da fare, ma sicuramente i droni stanno aiutando ad accelerare i lavori da��indagine, necessari, per preservare il patrimonio archeologico. Il dottor Castillo ha posto la��esempio di un gruppo di ricerca che ha trascorso due mesi, ad un costo di migliaia di dollari, per mappare l’area da��interesse utilizzando metodi convenzionali. Con un drone A? possibile ricoprire una superficie, simile, in meno di dieci minuti e caricate le fotografie negli appositi programmi per computer, si puA? avere una mappa il giorno seguente: “Con questa tecnologia, sono stato in grado di fare in pochi giorni quello che prima mi richiedeva anni”.

Nella Giordania meridionale, nel sito archeologico di Fifa, che ospita oltre 10.000 sepolture della��EtA� del Bronzo, ricche di vasellame, perle di corniola e bracciali di conchiglie, i droni servono a frenare il saccheggio dei siti storici da parte dei tombaroli, che continuano ad alimentare il mercato dei traffici di reperti antichi.

Morag Kersel, archeologa della DePaul University di Chicago, sarA� impegnata nei prossimi cinque anni a controllare questo genere di attivitA� lungo il Mar Morto, in Giordania.A�Attraverso le immagini dei droni sarA� possibile capire dove sono avvenuti i saccheggi, con quale frequenza e di conseguenza capire cosa A? andato perduto prima di poter iniziare a proteggere ciA? che resta.

L'archeologa Morag Kersel con il drone utilizzato per il monitoraggio dei siti archeologici in Giordania. (immagine presa da asorblog.org)
L’archeologa Morag Kersel con il drone utilizzato per il monitoraggio dei siti archeologici in Giordania.
(immagine presa da asorblog.org)

 

Torniamo in Italia e godiamoci le immagini presentate,A�a scopo promozionale, dalla Regione Lazio alla��Expo di Milano. Le riprese, fatte per mezzo di droni, ci mostrano molti dei tesori delle province del Lazio, una carrellata di luoghi incantevoli che lasciano senza fiato.

 

 

BIBLIOGRAFIA & FONTI

a�?Archeologia. Teoria a�� Metodi a�� Pratichea�? di Colin Renfrew e Paul Bahn, Zanichelli

a�?Manuale di fotografia aerea: uso archeologicoa�? di Fabio Piccarreta, L’Erma di Bretschneider

http://www.academia.edu/2063157/Fotografia_aerea_per_l_archeologia

http://www.atsenterprise.com/index.html

http://www.nationalgeographic.it/multimedia/2014/04/15/video/droni_l_archeologia_ha_uno_strumento_in_pi_per_combattere_il_saccheggio-2102000/1/

http://asorblog.org/2014/01/22/landscapes-of-the-dead/

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/06/29/news/droni_mania-117132428/

http://www.nytimes.com/2014/08/14/arts/design/drones-are-used-to-patrol-endangered-archaeological-sites.html

http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/98/aerofototeca-nazionale

http://www.romadrone.it/

http://www.academia.edu/1572209/Attivit%C3%A0_di_rilievo_fotogrammetrico_stereoscopico_nell_area_dell_anaktoron_di_Torre_di_Satriano_-_abstract_from_M.Osanna_V.Capozzoli_Lo_spazio_del_potere_II

“Il bel promontorio”

Il Circeo, un bel promontorio come tanti altri, si potrebbe pensare, che si protende su di un A�mare dalle acque cerulee, con una rigogliosa flora ed incantevoli scorci panoramici. La classica meta estiva ambita dai turisti di ogni dove.

Ma ca��A? qualcosa di piA? in questo luogo, qualcosa che lo rende speciale: A? la��atmosfera che si respira, quasi magica, osservandolo da lontano o addentrandosi nei suoi sentieri.

La stessa atmosfera che ha ispirato gli animi di poeti, scrittori e viaggiatori di ogni tempo, durante la sua esistenza millenaria.

In attesa della��uscita di un articolo sul Circeo, raccontato dalla penna audace, della��autore Evelino Leonardi, ci lasciamo trasportare dalle parole di personaggi piA? o meno vicini tra loro nel tempo, che sono stati capaci di descrivere, in maniera emblematica, questo promontorio ricco di fascino, in cui, storia, mito e leggenda si intrecciano, da sempre, in maniera indissolubile.

"Latium nunc Campagna di Roma" - 1595 - Gerhard Mercator (o Mercatore)
“Latium nunc Campagna di Roma” – 1595 – Gerhard Mercator (o Mercatore)

Un luogo, da qualcuno definito “l’olimpo da��Italiaa�? e da qualcun altroA�a�?il Machu Picchu del Tirrenoa�?, capace di destare meraviglia come pochi altri sanno fare a��

a�� lo sa bene il professor Tommaso Lanzuisi, nativo del posto, che ci da una descrizione mirabile di come appare questo lembo di terra, visto dalle zone ad esso prospicienti:

Il Circeo visto dalla spiaggia di Latina
Il Circeo visto dalla spiaggia di Latina

a�?Il Circeo A? come un baluardo sul mar Tirreno e domina uno dei paesaggi piA? vasti e piA? incantevoli da��Italia. Da Anzio o dai colli Albani, esso appare sulla��orizzonte come una gigantesca figura di uomo dormiente, la testa a ovest (vetta di Circe) e il corpo allungato verso est. La visone si fa piA? netta man mano che avanziamo nella pianura. Sembra veramente la��Atlante-Posidone, che Evelino Leonardi credette di aver scoperto nel profilo del monte. Altro A? la��aspetto da oriente. Da Gaeta, Sperlonga, Terracina, il Circeo A? la��isola Eea che gli antichi navigatori videro emergere dalle acque, sulla quale dominava la Maga trasmutatrice di uomini. Dal mare e dalla scogliera del versante meridionale la vetta di Circe somiglia a un uccello da preda con le ali semiaperte, quasi in atto di spiccare il volo: A? il Picco della Sparviera di V. BA�rard. E altra A? la visione dai monti della��interno. Dalla Rotonaria, negli Antiappennini, a quasi duemila metri di altezza, il Promontorio spicca laggiA?, tra i vapori azzurrini del mare, attraverso la valle della��Amaseno; ed A? la��invito, il richiamo del mare e della pianura ai pastori dei montia�? a��

a�� lo sapeva bene il viaggiatore e scrittore romantico Ferdinand Gregorovius, giunto in Italia (meta privilegiata del famoso a�?gran toura�?) nel 1852, che partendo da Terracina descrisse il suo viaggio verso quella che era la��antica isola Eea:

Il Circeo visto dal Tempio di Giove Anxur
Il Circeo visto dal Tempio di Giove Anxur

a�?Da Terracina , dove passai la Pasqua, volli andare sul Capo del Circeo, anche solo per una fuggevole visita. Dista tre ore da questa cittA�, sebbene la limpidezza della��aria lasci credere che sia piA? vicina. La stupenda forma del promontorio sembra essere sospesa sulla lunga duna come su di un nastro e lascia dappertutto libero un orlo di spiaggia, A�sul quale si puA? camminare come sopra un tappeto di velluto …

… salii sulla barca per raggiungere il Circeo … Erano le quattro del mattino quando salpammo. La luna brillava nel cielo verso est e spandeva ancora, lottando con il grigio della notte, un esteso chiarore dorato sul mare lievemente mosso A�… il Capo Circeo era ancora avvolto da un velo, dal quale fuoriusciva solo la��alta sua vetta.

Solo chi ha viaggiato sul mare, tra il calar della luna e il nascere del sole, puA? dire di aver visto il a�?mattino divinoa�?, questo consapevole divenire di un nuovo giorno della vita. Il respiro del mare che sale dalla��infinito ondeggiante elemento, ha in se il fremito primordiale della creazione. PerchA� il mare risveglia in noi, anche solo nel guardarlo in lontananza, o solo ascoltando la��infrangersi delle onde con il loro ritmico pulsare sulla spiaggia, un cosA� profondo struggimento, che neanche il piA? elevato paesaggio alpino sa suscitare? Forse perchA� questo piccolo nostro a�?ioa�?, le sue piccole necessitA�, la coscienza della natura, destata per un attimo, si trovano in immediato contatto con la��infinito e la��eterno, con ciA? che non ha storia e tempo, non ha confine e forma …

… sempre piA? chiaramente si delineava lo scuro promontorio, il suo bianco paese e la grigia torre ai suoi piedi, sul mare …

Da tempi antichi fu indicato in questo bel promontorio il luogo delle favole di Circe, dato che con la sua forma quasi insulare e i suoi fitti boschi, i suoi odorosi declivi, le sue grotte di stalattiti sul mare, dava la��idea di essere un ambiente adatto a far nascere una favola magica di antichi navigatori.

Il monte Circeo nei tempi preistorici era evidentemente una��isola, come oggi le vicine isole di Ponza, e come un tempo lo era anche il monte Soratte. Certamente molto prima dei tempi della��Odissea, gradatamente questa isola si unA� alla terra e divenne un Capo. Gli antichi geografi riportano che su di essa si trovava una cittA� con il tempio di Circe e con un altare a Minerva, dova��era conservata la coppa di Circe in cui Ulisse aveva bevuto …

… il sole si A? alzato dietro le montagne di Gaeta e la luna A? scomparsa. Il Capo si trova ora illuminato davanti a noi. Il sole del mattino illumina con una luce quasi sobria tanto che quella��alone magico sembra sparire …

Come appare piena di magia la vista del Capo Circeo quando lo si osserva da Astura, dalle montagne latine o dei Volsci o anche da Terracina stessa!

Ora che lo vedevo davanti a me, dai colori grigi e verdi, la montagna somigliava a molte altre; la forma insulare che assumeva in lontananza scompariva, e lo vedevo scendere verso la palude pontina con una larga striscia di terra. Le belle forme sparivano; il Capo era coperto da fitti boschi fino alla cima, mentre visto da lontano sembrava essere formato da nude pareti rocciose, che brillavano di riflessi di luce …

a�� camminai ai piedi del Capo, la cui intera forma avevo davanti ai miei occhi. Ea�� una possente piramide la cui alta punta, alla sua estremitA�, A? indirizzata verso ovest. Quasi fino alla cima, la montagna A? coperta da querce e cespugli tra i quali, talvolta spuntano acute rocce rossastre … Nelle spaccature delle rocce crescono palme nane; da li vengono prelevate dai giardinieri di Roma. Molte palme che adornano il Pincio sono cresciute sul Capo Circeo …

… Se in questo promontorio si A? in cerca di un posto ove potrebbe essere stata collocata la valle e il palazzo della melodica dea Circe, A? inevitabile pensare alla piattaforma di San Felice stesso, oppure a questo declivio. Qui infatti troviamo, anche se non vere e proprie valli, dei larghi fianchi montuosi, dova��A? possibile collocare il castello incantato di Omero. Cresce una flora rigogliosa: forse vi cresce anche la salutare erba Moly, che Mercurio diede al paziente Ulisse: a�?Nera era la radice e bianco come il latte il fiorea�? …

La fantasia popolare non ha del resto individuato un posto per la dimora di Circe e la leggenda A? rimasta qui piA? per il nome della maga Circe che per la favola stessa: essa non A? che artistica ed archeologica. Qui si pensa alla maga Circe come a una Loreley, che attirasse e facesse arenare le navi. Mi hanno raccontato che era stata infine sfidata da una nave straniera tutta di cristallo, sulla quale la maga non aveva potuto esercitare potere alcuno e che anzi era stata presa, rinchiusa nella nave e portata via. Da allora le sue tracce sono scomparse. Mi persuasi che la potenza immaginativa di questo buon popolo lavoratore non sia andata oltre nella incantevole leggenda della maga Circe.

E forse il mio Cicerone si divertA� nel raccontarmi che al tempo in cui abitava a San Felice una mattina ad una sentinella di guardia della torre del Fico apparve un cane dagli occhi di fuoco, che aveva tracciato attorno a lui dei cerchi magici.a�?A�…

Il Picco di Circe
Il Picco di Circe

… lo sapeva bene anche Gabriele Da��annunzio che in due liriche della��Alcione esplicitA? il richiamo alla maga e al promontorio:

a�?Ma a te vanno i miei sospiri,

a te, ombra del Monte CircA?o

letifera come il veleno

e il carme dell’avida maga

che tenne l’insonne

piloto re d’Itaca Odisseo

nel letto dall’alte colonne.

Quivi ancor regna nel Monte

l’Iddia callida, figlia del Sole;

e spia dal palagio rupestro,

tra sue stellate pantere

e sue tazze attoscate di suchi.

Gemon prigioni i suoi drudi,

bestiame del suo piacere,

cui ella tocca la fronte

con verga e sussurra parolea�? …

"Circe offre la coppa ad Ulisse" - 1891 - John William Waterhouse
“Circe offre la coppa ad Ulisse” – 1891 – John William Waterhouse

… e immaginando di solcare le acque che lo circondano:

A�a�?Si naviga per acque

infide verso l’isola di Circe.

… Apri gli occhi! Ecco l’atrio della maga

tutto riscintillante di prodigi.

Larve di stelle adornano la reggia

della donna solare, vedi?, simili

a foglie macerate dagli autunni

che serban lor sottili nervature

con la tenuitA� dei bissi intesti

d’aria e di lume. Fili palpitanti

le congiungono, l’iride le cangia,

indicibile tremito le muove.

Circe incantA? le stelle eccelse, e l’ebbe,

e le votA? di lor sostanza ignA�ta;

e qui raduna le lor dolci larvea�?.

A�Sembra quasi di vederlo a�?il bel promontorioa�?; la sua immagine ci si palesa davanti leggendo le parole di questi scrittori e sembra quasi di percepire le sensazioni che ne scaturiscono.

Ma, come scrisse Giuseppe Capponi, nessuna descrizione eguaglia la visione diretta di questo luogo, nessuna penna puA? descriverne la vera bellezza e a�?i pennelli dei piA? celebri paesisti, le rime ed i versi dei piA? nobili poeti non ne sono che deboli immagini; supera essa i colori della��arte imitatrice.

Fra le giocondissime prospettive che presenta il Promontorio Circeo, la visuale poi della torre Vittoria si puA? chiamare il compendio della storia Circellese: le mura ciclopiche che da lungi si osservano ne porgono il principio, le rovine della CittA� esistenti nel morrone il mezzo, o apogeo, le merlate mura, non del tutto ricoperte da nascente edera, del distrutto Castello, ove presentemente sorge il Villaggio di S. Felice, la decadenza ed il fine. Non va��ha dubbio certamente su la��antica rinomanza di questo Promontorio, e gli occhi stessi ce ne rendono bastantemente informati, se per un istante volgiamo lo sguardo su i varj punti della magica prospettiva. Gli avanzi del tempio di Circe su la piA? alta vetta del Promontorio, le di cui falde smaltate sono da biancheggianti ruderi, o da verde manto di folto bosco le sue spalle; le vestigie di antico telegrafo sulla vetta della Cittadella Ciclopica, le orme di battaglie rimaste su le pareti di torre Vittoria, la torre del fico recentemente costrutta, la via che conduce al celebratissimo lago di Paola, i vaghi Casini sparsi qua e lA� sul pendio del monte, la vista di un sontuoso Cimitero, ed il piccolo fossato Riotorto, che sotto gli occhi ci divide il Circeo dal continente; tutto insomma ci fa sovvenire quanto mai sia accaduto in questo promontorio: tutto A? vinto da una semplice occhiataa�?.

Ed A? a�?questa idea cosA� toccante, che ci fa provare nella fantasia una specie di seduzione ed incantoa�?.

"Il Circeo visto da Terracina" - 1840 - Jorgen Sonne
“Il Circeo visto da Terracina” – 1840 – Jorgen Sonne

 

Bibliografia:

a�?Il Circeo nella legenda e nella storiaa�? di Tommaso Lanzuisi a�� Editrice Eea, Roma, 1973

a�?Itinerari Laziali (1854-1873)a�? di Ferdinand Gregorovius a�� Edizioni belvedere, Latina, 2007

a�?Il Promontorio Circeo illustrato con la storiaa�? di Giuseppe Capponi – (rist. anast. Velletri, 1856)

IPOTESI DI DATAZIONE DELLE MURA MEGALITICHE IN OPERA POLIGONALE DALL’OSSERVAZIONE DI PYRGI ED ORBETELLO di Roberto Mortari

Nel suo sito web, a�?terradegliuomini.coma�?, il geologo Roberto Mortari, classe 1939, espone un confronto tra le mura megalitiche da��Italia e Grecia. Dopo una��attenta spiegazione sulle lunghezze dei lati dei blocchi poligonali presi in considerazione e le ampiezze degli angoli, estrae dai suoi studi geologici le variazioni del livello del mare, negli ultimi 10.000 anni, rapportandole alle sue ricerche sulle cinte murarie megalitiche dei siti di Pyrgi ed Orbetello. Emergono, cosA�, due date interessanti entro le quali questa tecnica costruttiva veniva applicata.

CINTA MURARIA DI PYRGI (immagine presa dal sito web terradegliuomini.com)
CINTA MURARIA DI PYRGI
(immagine presa dal sito web terradegliuomini.com)
CINTA MURARIA DI ORBETELLO (immagine presa dal sito web terradegliuomini.com)
CINTA MURARIA DI ORBETELLO
(immagine presa dal sito web terradegliuomini.com)

Di seguito un estratto:
a�?Se per il muro poligonale di Pyrgi A? stato necessario osservare i fori di litodomi per arrivare a conoscere la sua etA�, per l’analogo muro di Orbetello il discorso A? piA? semplice. Basta considerare che della sua altezza complessiva di 7 m (Pincherle, 1990) ben 4 sono sott’acqua. Il mare, dopo essere rimasto alla quota di -9 m tra l’8174 e il 5572 a.C., si A? stabilizzato a -4 m tra il 5499 e il 5351 a.C.. Anche su questo muro si possono osservare fori di litodomi, seppure con molta maggiore difficoltA� a causa della natura della roccia, molto alterabile in superficie perchA� costituita da un calcare dolomitico fittamente interessato da microfratture. Se, come si A? ipotizzato a Pyrgi, anche qui la costruzione del muro A? stata iniziata alla quota del mare, A? in quest’ultimo intervallo di tempo che deve essere collocata la data di costruzione del muro di Orbetello.
La data minima del 5351 a.C. pone un rilevante problema. Abbiamo sostenuto che l’opera poligonale A? uno dei prodotti dell’uomo che A? stato possibile grazie alla metallurgia del bronzo. Mentre la diffusione del bronzo in Europa viene fatta iniziare non prima del 3500 A� 3300 a.C., il caso di Orbetello ne fa retrodatare l’inizio di circa 2000 anni.a�?

Il link della��articolo (anche scaricabile in pdf):
http://www.terradegliuomini.com/confronto-tra-mura-poligonali-ditalia-e-grecia-2/

ALATRI: LA STORIA DI UNA POPOLAZIONE VENUTA DA LONTANO

L’acropoli dalle mura megalitiche …

Chi  ne furono gli artefici? E in quali tempi?

Ripercorriamo un viaggio di antiche popolazioni, affascinati miti e tradizioni e  di chi forse un giorno, lontano dalla sua patria, andò in cerca di nuove terre …

Possibile ricostruzione dell'acropoli di Alatri nella sua totalità
Possibile ricostruzione dell’acropoli di Alatri nella sua totalità
  • In cerca di un posto nella Storia

Siamo nel Lazio, nella Ciociaria Storica, su di un’altura alle pendici dei monti Ernici, cinta da spesse mura poligonali: siamo ad Alatri. Una “vetustissima civitas” (come ci indica la denominazione del suo stemma), fondata, assieme alle città di Anagni, Arpino, Atina e Ferentino, dal Dio Saturno, il cui mito narra che arrivò nell’Italia centrale, profugo dal proprio regno e venne ospitato da Giano regnando insieme ad egli sulle popolazioni indigene e incolte. La presenza di mura poligonali come quelle delle “città saturnie” è nota anche in altre città vicine e meno vicine del Lazio come: Veroli, Cassino, Fondi, Formia, San Felice Circeo, Sezze, Norba, Cori, Segni, ed altre località limitrofe. Le mura di Alatri “si veggono essere nella costruzione simili a quelle di Ferentino, ma più grandiose e più pulite (…) era di già prevenuta, che le mura di Arpino fossero inferiori a queste di cui io ho parlato (…) sebbene la Città di Atina abbia molto figurato nei tempi andati, per cui Virgilio la disse potente, pur non vi abbiamo ora che poche fabbriche romane (…) nella totalità questa cittadella – Alatri – è più grandiosa e meglio conservata, forse perché di ottima specie la pietra calcare del monte, colla quale fu costruita.” (M. C. Dionigi). Ancora oggi si mostra pressochè intatta, a raccontare  che il ferro e il fuoco di nessun nemico è riuscita a cancellarla.

"Porta Minore" o "Porta dei Falli"
“Porta Minore” o “Porta dei Falli”

Eretta con massi poligonali di grandi dimensioni perfettamente combacianti l’un l’altro, senza l’uso di nessun tipo di legante, le cui mura arrivano nel punto più alto a misurare circa 21 metri di altezza. Orientata secondo l’asse Est-Ovest, la pianta è un poligono irregolare, costruito con un pensiero e non totalmente condizionato dalla natura del terreno, le cui due porte di accesso, una sul lato nord detta “Porta Minore” o “Porta dei Falli” (“che – come scrisse la Dionigi – per soffitto presenta una scala rovescia come all’ingresso della piramide di Menfi, in Egitto”) e una sul lato sud, detta “Porta Maggiore” (il cui architrave che la sormonta pesa 27 tonnellate e seconda per dimensioni solo alla Porta di Micene), nelle misure seguono i canoni della sezione aurea che, secondo uno degli studiosi del luogo Ornello Tofani, si ripropone anche nelle proporzioni della pianta del’acropoli stessa.

"Porta Maggiore"
“Porta Maggiore”

La spontanea meraviglia alla vista della grandiosità delle suddette mura è tanta, come si deduce dalle parole della Dionigi: “non so spiegarvi quale stupore mi cagionasse l’aspetto di quelle mura, che secondo le mie osservazioni istoriche fatte sugli autori, suppongo costruite dai Pelasgi e che ora vengon dette opera ciclopea, per denotare la grandiosità e robustezza con cui vennero fabbricate”. La supposizione della Dionigi, che vede la realizzazione delle mura poligonali di Alatri ad opera dei Pelasgi, è oggetto di discussioni contrastanti tra archeologia ufficiale e ricercatori indipendenti: già tra gli archeologi della prima metà del secolo scorso, si diffuse l’affermarsi delle convinzioni (aprioristiche e poco giustificate), che l’opera poligonale, anche se intrinsecamente megalitica e così diversa dal modo di ragionare dei Romani, non fosse invece nient’altro che una delle tecniche costruttive della Roma Repubblicana. Come scrive il prof. Giulio Magli del Politecnico di Milano: “L’acropoli di Alatri è abitualmente attribuita ai Romani con la fretta tipica di una certa archeologia “ufficiale”, di fatto però non se ne conoscono con certezza, né l’età, né lo scopo, né gli artefici”. Se non si può affermare con certezza chi ne furono gli artefici, si può però affermare che alla vista, le file di pietre di taglio più piccolo di epoca romana, contrastano palesemente con la magnificenza delle antiche costruzioni poligonali. Lo studioso A. De Cara, affermava: “Non l’avrebbero certamente fabbricate, se non con l’architettura propria dell’età che allora correva, cioè con la romana, la quale non ha nulla a che fare con la pelasgica. Quei tratti di mura ristorate dalle colonie sono la più chiara prova dell’antichità e preesistenza delle città pelasgiche nel Lazio e le aggiunte e i restauri, con massi quadrati sono propri dell’arte e dello stile de’ Romani” e l’architetto G. B. Giovenale scriveva in merito: “Introdotto una volta lo stile romano, non si fabbrica più con lo stile di secoli addietro, come non si fabbrica a’ di nostri col reticolato romano”. Seguendo le argomentazioni degli autori sopra citati, insieme a quelle del viaggiatore e letterato F. Gregorovius e a quelle dello studioso L. Ceci fino ai più recenti (ma non meno meritevoli) ricercatori, “la mente si china al mistero di un‘origine che mostra i lineamenti di una grande storia”…

  • Sono gli Hetei venuti da lontano

…è la storia dei Pelasgi, che ha alimentato nei tempi miti e leggende, le cui notizie ritroviamo negli scritti dell’antica tradizione classica di Omero, Esiodo, Ecateo, Erodoto, che li vogliono abitanti delle vaste zone che poi divennero greche e in quasi tutte le isole dell’Egeo. Ed è proprio qui che presero la denominazione di ”Pelasgòi” che greco non è come il De Cara affermava: “ammettendo che i Pelasgi arrivarono dall’Asia Minore in Grecia, tale nome i greci lo appresero solo da quella gente immigrata”; analizzando il nome sappiamo che “Pel” significa emigrare, fuggire lontano, diventare ospiti e “Asgi” sta per asikoi, asiki e per sincope, askoi o aski che è un derivato di Asi, Ati, Hati, “popolo di Hat-i-a” oppure di Hati-a cioè “popolo dell’Asia” e l’Asia dei tempi antichi era la dimora degli Hetei o figli di Het. Pelasgi ed Hetei erano una stessa civiltà: gli uni lontani dalla patria, gli altri in patria. I Pelasgi dunque erano gli Hetei emigranti, che fecero altrove la loro storia; quelli che oggi chiameremmo “Hittiti” che risultano essere la stessa civiltà che nella Bibbia e in Siria erano chiamati Hittim, Cheta o Xita dagli Egiziani, Hatti o Hati in Cappadocia, Asia Minore, dagli Assiri e dai Caldei. Nel 1915 l’archeologo orientalista B. Hrozný, decifrò le iscrizioni dell’archivio di Bogazkòy, capitale dell’impero Hittita (Hattusa), ad oriente dell’attuale capitale della Turchia, Ankara. Il glottologo E. O. Forrer, esaminando l’insieme dei frammenti rinvenuti, in essi notò otto lingue diverse: sumerico, accadico, hittita, indiano primitivo, harrico, proto-attico, luvio e balaico. Questo a conferma che gli Hetei, erano un insieme di popoli. La lingua degli Hittiti di Hattusas, non era la lingua della popolazione che abitava il paese degli Hetei; quelli che parlavano la lingua che noi chiamiamo hittita erano in origine Indoeuropei, immigrati in Asia Minore, sottomettendo quelle popolazioni antiche del paese di Hatti,  fondendosi con esse e subendone gli influssi linguistici. Quindi la civiltà del paese dei figli di Het, ha radici di stanziamento che risalgono almeno alla fine del IV millennio a.C.. Verso la fine del III millennio una schiera di conquistatori venne tra i figli di Het se ne mise a capo e unificò le città-stato politicamente in lotta tra di loro e nacque un grande impero. Sono gli Hittiti della storia. Si impadronirono della Siria del nord, della Babilonia, stabilirono contatti diretti con l’ambiente etnico mesopotamico e quasi tutta l’Asia Minore, divenendo una delle più grandi potenze del mondo di allora. “La civiltà hittita – scrive J. Marcadè, professore di archeologia dell’università di Bordeaux – non rappresenta un inizio, bensì un risultato finale, una civiltà scaturita da altre civiltà, le quali, già molto tempo prima, vivevano in questo paese, arricchite di influenze straniere e stimolate da vicendevoli contatti”.

  • Lungo le strade dei loro cammini

Questa civiltà che affronta nei tempi migrazioni e spostamenti, il cui percorso parte dal Caucaso, attraversa l’Asia Minore divenendo il popolo degli Hittiti, passa nelle isole egee e in Grecia divenendo Pelasgi, arrivando fino da noi in Italia e ci fa ritrovare, oggi, acropoli e mura in opera poligonale, come quelle di Alatri. L’archeologo italiano S. Moscati descrive il primo nucleo della vita organizzata degli Hittiti, quale la  fortezza montana, cinta da mura, con una porta (a duplice ingresso per non interrompere il sistema di difesa) con grandi blocchi di pietra da cui emergono a protezione leoni e sfingi alate. Ne è l’esempio Bogazkòy  (Hattusa), dell’epoca imperiale hittita del XIV-XIII secolo a.C. costruita con autentiche mura megalitiche, con blocchi di pietra della lunghezza spesso superiore ai 2 metri.  Non si può non notare il legame che hanno Bogazkòy, Euyuk, Assarlik, Mindo e altre antiche città dell’Asia Minore con le costruzioni di Creta, Micene, Tirinto, Orcomeno e con quelle di tante altre città greche che vantano ancora un apparato architettonico poligonale-megalitico, costruite con la tecnica per la quale le mura di Alatri sfidano ancora i secoli. Su Tirinto scrive lo studioso F. H. Stubbings, citando Pausania, Apollodoro e Strabone: “I blocchi delle mura di Tirinto sono così grandi che la tradizione  attribuisce l’edificio ai giganti, i Ciclopi, invitati a questo scopo dall’Asia Minore; i confronti più vicini per questo tipo di fortificazioni sono in effetti quelli hittiti”. Anche ad Atene, la cui acropoli l’archeologia fa risalire al di la del periodo Miceneo e della tradizione Omerica, le fonti antiche chiamano “Pelasgicon” il suo muro di cinta perché secondo Pausania era stato costruito dai Pelasgi, come racconta anche Ecateo riportato da Erodoto. Afferma il Ceci a riguardo ”L’omotectia dei monumenti poliedro-megalitici dell’Asia Minore, della Grecia e dell’Italia, ci si manifesta etnica e tradizionale, anziché autoctona e spontanea”. Ma le somiglianze non le ritroviamo solo nell’apparato costruttivo che collega fra loro questi antichi monumenti, ma anche nelle simbologie che si ripresentano frequentemente. I leoni a protezione degli ingressi li ritroviamo come ad Hattusa, anche a Micene e secondo Don Giuseppe Capone (che dedicò una vita intera nell’intento di ridare il giusto merito e posto nella storia a quelle ormai tanto care mura) anche ad Alatri, affermando che il leone oggi a guardia dell’acropoli ”nel passato era invece a guardia di una porta come nelle antiche città di Hattusa di Micene di Euyuk, e Kabala ed è un simbolo comune nelle città dell’Asia Minore, scolpito generalmente in una delle porte a sud e il nostro non era di copertura ad una tomba romana come vogliono farci credere”; inoltre ritroviamo anche altri elementi leonini (zampe di leone) alla base degli stipiti della porta a sud-est della cinta muraria più esterna della città.

Nei rilievi rupestri di Yazilikaya, località nei pressi di Hattusa, gli Hittiti hanno lasciato scolpita la processione mitica, nella quale il dio maschile, da loro adorato, definito come “dio della Tempesta”, avanza con quarantacinque dee e personaggi maschili, verso la “dea del Sole Arinna”, nonché sua sposa, seduta su di una leonessa e assistita da due tori; seguita dal figlio su di un leone con ascia bipenne, seguono a lei venti persone, di cui le prime due sono poste sotto un’aquila bicefala. Il nome del dio maschile è scritto in cuneiforme con l’ideogramma IM o U e i cui simboli sono l’ascia con la quale schianta gli alberi della foresta durante le tempeste o la mazza con la quale produce il tuono (la sua voce) battendola sulle rocce. Lo si rappresentava accompagnato dal toro o a cavalcioni del toro stesso. Questo rilievo racchiude un insieme di simbologie facenti parte di un culto proprio della tradizione hetea, che ritroviamo dall’Asia Minore, passando con i Pelasgi per la Grecia, per Creta e arrivando in Italia centrale. Ad Alaca Huyuk, località dell’epoca imperiale hittita nell’attuale Turchia, a fianco della porta della sfinge troviamo scolpita in bassorilievo un aquila bicefala che afferra due lepri.

Bassorilievo presente nell'angolo sud-est dell'acropoli
Bassorilievo presente nell’angolo sud-est dell’acropoli

Il simbolo dell’aquila lo ritroviamo presumibilmente anche ad Alatri, in basso a sinistra sul lato est delle mura dell’acropoli, che in tempi addietro era posta a 3,50 metri di altezza rispetto al terreno (causa la costruzione dei manti stradali in epoche successive); scalfita dal tempo e forse anche dall’uomo è uno dei pochi bassorilievi ancora visibili dell’acropoli. Anche in Grecia ritroviamo l’aquila, considerata l’uccello divinatorio per eccellenza (più in generale, secondo gli antichi, gli uccelli erano considerati annunciatori profetici della volontà divina) e il fulmine sacro a Zeus, che richiama la folgore del dio della Tempesta degli Hetei. Erodoto ci tramanda che “i numi ai Greci pervennero dai Pelasgi, prima impararono queste cose gli Ateniesi e poi gli altri Greci e mescolati con essi abitavano i Pelasgi, fin quando questi non cominciarono a chiamarsi pure loro Greci”. A Cnosso ritroviamo l’ascia bipenne nelle mani della dea, considerata l’arma della divinità femminile o l’arma sacrificale connessa al sacrificio del toro che ritroviamo anche a Creta e nella località hittita di Catal Huyuk. “La somiglianza fra le religiose credenze e il simbolismo religioso de’ Pelasgi e degli Hetei, ci forniscono un’ultima prova dell’identità de’ due popoli. Gl’iddii venerati da’ Pelasgi, grandi, potenti e forti non sono altro che gli iddii guerrieri che vedemmo scolpiti sulle rupi di Iasili-Kaia, armati di spada o di mazza o di bipenne, corrispondenti altresì nelle sculture degli Hetei d’Asia Minore e de’ Pelasgi di Grecia e d’Italia, le figure cioè de’ leoni e altre somiglianti” affermava il De Cara.

Un’altra curiosità che può collegarsi al culto della popolazione Hetea e che ritroviamo in diverse zone da loro abitate è la simbologia fallica, usata come ornamento o come attributo di potere và a riassumere la carica energetica che è il fondamento dei ritmi di produzione agricola e della vita medesima nella sua totalità;  “Questo simbolo deve risalire in Grecia oltre il 2500 a.C. perché la dea della Fecondità, come la divinità maschile, l’Ermete itifallico, vi erano già venerati e secondo la tradizione greca furono i Pelasgi che insegnarono ai Greci ad effigiarli” (D. Levi). Se ne trovano tracce nell’Anatolia, nella Frigia, a Creta, nella città di Cnosso, sui frontoni delle porte, come anche ad Alatri sulla Porta Minore.

  • Come in cielo … così in terra

L’acropoli di Alatri, come la maggior parte delle strutture di tipo megalitico, è orientata archeoastronomicamente. Le popolazioni che le realizzarono trassero dal cielo, dalle stelle e dal sole, l’ispirazione, la posizione e talvolta anche il disegno. Secondo il già citato Don  Giuseppe Capone, non è da scartare l’idea che, nel caso di Alatri, l’ispirazione fosse venuta guardando nel cielo Castore e Polluce, i cui punti più luminosi sembrano ricalcare in terra la costellazione dei Gemelli. Questo perché di fatto in cielo esistono dei “poligoni”, sono quelli che l’uomo tende idealmente a formare unendo le stelle delle costellazioni con dei segmenti riportandoli poi in terra. Il rapporto con la natura ed in particolare con il cielo è stato da sempre una componente che ha influenzato la vita di quelle civiltà antiche e megalitiche, scandendone le attività pratiche (semina e raccolto), ma anche le attività religiose e politiche (feste e celebrazioni annuali). Come conseguenza di tutto ciò, talvolta, le conoscenze astronomiche vennero incorporate in modo sorprendentemente complesso nelle realizzazioni architettoniche, orientando gli assi delle strutture, seguendo i cicli solari e/o lunari e  indirizzandoli verso stelle brillanti nel cielo che avevano un determinato significato religioso. Don Giuseppe  Capone riflettendo sulla nascita della città, spiegava come la popolazione che arrivò sull’altura di Alatri per dare inizio alla costruzione delle mura, attese un raggio di sole del solstizio d’estate, affiorare su di una roccia che sarebbe divenuta poi il punto nevralgico dell’acropoli e punto più alto: “Gli antichi costruttori hanno orientato la nostra città per sentire dall’Oriente il potere dell’alba, come se avessero voluto trarre gli auspici di un tempo senza tramonto, per la città che affidavano al Dio Sole, in un giorno di solstizio. E il Sole ne indicò il centro, nell’incontro del primo raggio mattutino, con l’ultimo del vespro. Era il comportamento di una sensibilità religiosa, maturata in millenni di storia, che nulla ha a che fare con la leggenda o una qualunque fantastica interpretazione: è un messaggio scritto con le pietre dell’acropoli e con le pietre della cinta muraria”. Si creava così un legame tra cielo e terra e divenivano sacre le mura e le porte che venivano fondate insieme, come parti integranti ed insostituibili di un unico progetto.

Trovandoci davanti alla Porta Maggiore delle mura di Alatri sul lato Sud e proseguendo in direzione Ovest si possono notare tre nicchie, che anticamente si ritiene avessero una certa importanza durante i solstizi  e  i cui raggi del sole penetravano al loro interno e andavano forse a colpire delle pietre di un tempio antico, i cui resti si trovano subito dietro.

La porta minore illuminata durante l'equinozio d'autunno
La porta minore illuminata durante l’equinozio d’autunno

Di questi legami tra cielo e terra ne ha ampiamente parlato Ornello Tofani, che portando avanti i suoi studi ha scoperto che la “Porta Minore” ne è un esempio eclatante: durante le osservazioni in loco, si è reso conto che di notte nel campo visivo che si offre al termine in alto della scala, si ritrova la costellazione di Orione che oggi è visibile parzialmente ma che nel 1150 a.C. si scorgeva interamente; mentre di giorno durante gli equinozi viene completamente attraversata dal sole per la lunghezza di 17 metri arrivando ad illuminare Via Gregoriana alla base dell’ingresso, confermando così che la porta è orientata in modo tale da segnare per mezzo del sole il succedersi delle stagioni.

“Ai futuri studi il compito di valutare e se possibile confermare queste affascinanti ipotesi. Di sicuro, rimane il senso di aver iniziato a conoscere davvero, tramite ciò che è scritto nelle pietre e nelle stelle, l’antichità remota e affascinante di una città, nata da un raggio di sole che non si trova al centro di un paese esotico e remoto, ma in una bella valle, a pochi chilometri da Frosinone” (G. Magli).

 

Bibliografia:

  • Giuseppe Capone “La Progenie Hetea – annotazioni mitico-storiche su Alatri antica” Terza ristampa, 2009 Antica Stamperia Tofani
  • Marianna Candidi Dionigi “Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate dal Re Saturno”  Roma, 1809 Edizione Elettronica
  • Giovan Battista Giovenale “I monumenti preromani del Lazio” (dissertazione letta alla pontificia accademia romana di archeologia) Roma, 1900 Tipografia vaticana
  • Giuseppe Capone “Alatri, il nome antico di una città più antica – un’allettante ipotesi cullata dalla storia” 2002 Enzo Tofani editore
  • “Alatri, curiosando per la città” a cura di Nello Rinaldi
  • Ornello Tofani “Alatri, l’Acropoli ed i suoi misteri” 2010 Antica Stamperia Tofani
  • “I misteri della città di Alatri” documentario di Terra Incognita – Gli enigmi della storia